Lo stabilimento della Manifattura Tabacchi, situato nei pressi del parco delle Cascine a Firenze, viene costruito in sostituzione dei vecchi impianti collocati presso l’ex convento di Sant’Orsola e della chiesa sconsacrata di San Pancrazio.
Realizzato tra il 1933 e il 1940, ad opera di Pier Luigi Nervi e Giovanni Bartoli, lo stabilimento si estende su di una superficie di 6 ettari, comprende 16 edifici per un totale di 100.000 metri quadrati.
Il complesso è caratterizzato da una serie di edifici a planimetria e volumetria compatte, connotati da un inconfondibile stile razionalista. Il corpo della palazzini uffici e direzione è rivestito completamente in travertino.
Sull’entrata principale fanno bella mostra di sé dei bassorilievi raffiguranti la lavorazione del tabacco, opera di Francesco Coccia.
Faceva parte dello stabilimento anche il teatro Puccini, opera pregevole che ricorda l’architettura dello stadio fiorentino, progettato dallo stesso Nervi. Il teatro, nato come dopolavoro, è attualmente in uso per vari tipi di spettacoli.
All’epoca dell’edificazione nell’impianto operavano oltre 1.400 addetti, distribuiti a seconda dei ruoli nelle tre principali aree; il complesso comprendeva, tra gli altri spazi, anche le sale di maternità per le maestranze femminili.
La fabbrica era servita direttamente dalla rete ferroviaria che, dalla stazione Leopolda, arrivava fin dentro lo stabilimento.
Nella Manifattura Tabacchi di Firenze sono nate le famose sigarette MS, acronimo di Messis Summa (in latino “miglior raccolto”) che ricordava anche Monopoli di Stato e, nella cultura popolare, ironicamente, “Morte Sicura”.
Oltre a queste note sigarette venivano prodotti i famosi sigari Toscani la cui storia è legata ad un aneddoto: sembra che nel 1815, quando la sede della Manifattura Tabacchi era presso l’ex convento di Santa Caterina, un improvviso acquazzone bagnò i barili di tabacco stoccati nel cortile. Tutta questa materia prima, diventata maleodorante, doveva essere destinata alla distruzione. Per limitare il danno economico, fu deciso di fare un prodotto di scarto dal basso costo, destinato al popolo. Nasce così il sigaro toscano, dalla forma sgraziata ma dal sapore particolare dovuto alla fermentazione. Ottiene talmente successo da diventare uno dei prodotti di punta della Manifattura Tabacchi di Firenze.
Lo stabilimento è rimasto in funzione fino a tempi recenti, chiudendo definitivamente la produzione nel 2001.
Ad oggi l’area è stata acquistata da una società privata e viene affittata per eventi. Non si esclude una riqualificazione a scopo abitativo.
Nuova tappa della mostra fotografica di LostItaly. Questa volta saremo ospiti della Cascina Martesana a Milano.
“Il progetto Lost in Time, selezionato dalla curatrice Paola Riccardi per il sesto appuntamento della rassegna fotografica triennale Altri Mondi, è una collettiva coordinata da Michele Greco. I fotografi in mostra sono tutti membri, assieme allo stesso Greco, del progetto LostItaly.it, che ha come obiettivo di creare una sorta di memoria collettiva attraverso un archivio di immagini di luoghi abbandonati, scattate dagli stessi fotografi ma anche con notizie storiche e fotografiche.”
La mostra si inaugura il 13 luglio 2018 e rimarrà esposta fino al 2 agosto.
Alcune immagini e gli interventi dei relatori Riccardo Pieroni, Sandro Baliani e Maurizio Cappai in occasione dell’inaugurazione della mostra di LostItaly presso la biblioteca Elsa Morante di Ostia.
Nuova tappa della mostra fotografica di LostItaly. Questa volta saremo ospiti della biblioteca Elsa Morante di Ostia (RM).
La mostra inaugura sabato 13 gennaio alle ore 11:00 con l’intervento di Riccardo Pieroni, fotografo e docente di tecnica fotografica presso l’IISS “Rossellini” di Roma.
Alcune immagini e gli interventi dei relatori Gianni Capitani e Paolo Quattrini in occasione dell’inaugurazione della mostra di LostItaly presso la biblioteca BiblioteCaNova Isolotto di Firenze.
Introduzione di Michele Greco
L’introduzione della mostra è stata basata sul seguente passaggio del libro “Una vita per strada” di Joseph Mitchell:
“Come ho detto, sono fortemente attratto dalle vecchie chiese. E sono inoltre fortemente attratto dai vecchi alberghi. E sono inoltre fortemente attratto dai vecchi ristoranti, dai vecchi bar, dalle vecchie case popolari, dalle vecchie stazioni di polizia, dai vecchi palazzi di giustizia, dalle vecchie tipografie, dalle vecchie banche, dai vecchi grattacieli. E sono inoltre fortemente attratto dai vecchi pontili e dalle vecchie stazioni marittime e dalle aree portuali in genere. E sono inoltre fortemente attratto dai vecchi mercati e più di tutti dal Fulton Fish Market. E sono inoltre fortemente attratto da una dozzina di vecchi edifici, la maggioranza dei quali in Lower Broadway e sulla Fifth e la Sixth Avenue nel tratto tra la Ventesima e la Quarantesima, un tempo grandi magazzini diventati in seguito abitazioni o depositi, quando i grandi magazzini – alcuni famosi e rinomati e perfino amati ai loro tempi e ormai del tutto dimenticati – hanno chiuso o si sono trasferiti in altri edifici nei quartieri residenziali della città.
Sono inoltre fortemente attratto da certi luoghi nei quali in genere è «vietato l’accesso», come indicano i cartelli, «ai non addetti ai lavori» – gli scavi per esempio, e edifici e altre strutture in demolizione. […] Sono stato in decine di edifici in fase di demolizione (arrampicarmi sui ponteggi è la mia passione) e sono salito su decine di grattacieli in costruzione, e ho visitato una mezza dozzina di ponti in costruzione, e sono sceso in tre tunnel in costruzione – il Queens Midtown Tunnel, il Lincoln Tunnel e il Brooklyn-Battery Tunnel – e ho guardato le ruspe farsi strada centimetro dopo centimetro nel letto del fiume. E sono inoltre fortemente attratto da certi sotterranei e da certe torri. Sono sceso nelle cripte della chiesa della Trinità e sono sceso nelle camere blindate della Federal Reserve Bank, e sono sceso nei vecchi sotterranei in disuso dei grandi magazzini abbandonati, tra archi in mattoni rossi, sotto il ponte di Brooklyn dal lato di Manhattan, sotterranei che emanano ancora l’odore stantio ma gradevole di alcuni prodotti che vi erano immagazzinati – vino in botti, cuoio e pelle proveniente dal quartiere del pellame all’ingrosso, conosciuto con il nome di Swamp, che un tempo era adiacente al ponte e ora è stato demolito, e pesce in eccedenza conservato al fresco dai pescivendoli del Fulton Market, non molto distante, da vendere a costi elevati. Sono stato sulla cupola del City Hall e sulla torre del Municipal Building e nella cupola del vecchio Police Headquarters e sono stato su entrambi i campanili della cattedrale di St. Patrick e mi sono inerpicato sulla scala paurosa che sta nel braccio alzato della statua della Libertà e mi sono affacciato (ma solo per qualche istante) sulla stretta balconata intorno alla torcia e sono stato nelle soffitte e sui tetti di decine di vecchi edifici sbarrati e decretati inagibili.”
Con queste parole Joseph Mitchell (1908-1996), firma di punta per 60 anni del New Yorker, descrive il proprio girovagare per gli edifici dismessi o fatiscenti della New York “orizzontale” che stava via via scomparendo sotto i colpi della New York “verticale” che stava sorgendo ad inizi degli anni ’60. Un muoversi per la città che noi oggi chiameremo “esplorazione urbana”, certo Mitchell ha raccontato molto altro di New York, ne è stato il biografo principale, ed anche grazie a questo suo vagare, come lui stesso ammette, che è riuscito a sentirsi a suo agio in una città non sua, ma ci piace considerarlo un “esploratore urbano” ante-litteram. Noi, come lui, cerchiamo di raccontare, lui con «la carta da lettera intestata del giornale e una matita dalla punta morbida nella giacca», noi con la macchina fotografica, una civiltà che, nelle sue diverse declinazioni: industriale – postindustriale- post boom economico, sta scomparendo, lasciando, come sempre succede in quel ciclo inarrestabile che parte dalla notte dei tempi, rovine. Rovine che sono sotto gli occhi di tutti, ma, esattamente come quelle descritte da Mitchell in molti dei suoi articoli, invisibili ai più, o spesso, peggio, non viste come un’eredità di quello che si era, ma bensì un segno di un passato non più utile, da dimenticare, degrado, e, dunque, da cancellare. È quindi nostra intenzione continuare, con i mezzi che ci sono propri, a tener viva la memoria di un passato recente a cui dobbiamo, nel bene e nel male, ciò che siamo, ciò che la nostra società tecnologica (e non) è, prima che di esso non resti più traccia.
Interventi di Michele Greco, Gianni Capitani e Paolo Quattrini
La biblioteca BiblioteCaNova Isolotto di Firenze, in collaborazione con LostItaly, presenta la mostra fotografica
identità e memoria dei luoghi abbandonati
dal 27 novembre al 7 dicembre 2017
presso Biblioteca BiblioteCaNova Isolotto
Via Chiusi, 4/3a – Firenze
Inaugurazione 29 novembre 2017 ore 17
con la partecipazione di Paolo Quattrini (Istituto Gestalt Firenze) e Gianni Capitani (Istituto Fenix, Puebla, Mèxico)
Più di dieci anni fa un piccolo gruppo di fotografi dilettanti decise di riunirsi in un forum per condividere una grande passione: i luoghi abbandonati.
All’epoca quasi soltanto all’estero esistevano fotografi che scoprivano, esploravano e raccontavano fabbriche, manicomi, ospedali e ville dimenticati da tutti.
Da allora l’attività fotografica di questo gruppo si è sempre affiancata al recupero delle informazioni storiche sui luoghi, con l’obiettivo di creare una sorta di memoria collettiva di un mondo che sta pian piano sparendo e le cui tracce sopravvivono soltanto nelle nobili macerie dimenticate da tutti.
Da questo progetto nasce LostItaly.it, dove molti di questi luoghi sono raccontati con notizie storiche e fotografiche.
La possibilità di ritrarre luoghi in abbandono che abbiano una valenza estetica sta pian piano scemando, poiché ormai quel che viene costruito oggi e sarà abbandonato in futuro, ha sempre più raramente una peculiarità architettonica che lo possa rendere affascinante nel suo declino.
Da qui l’interesse e l’importanza del lavoro di rappresentazione e ricerca svolto da LostItaly.it, che intende conservare la memoria storica di luoghi importanti per la nostra società e non solo per chi li ha vissuti tramandandoci, quasi sempre inconsapevolmente, tracce della propria esistenza.
Sul tema, ma non troppo, dei luoghi abbandonati Paolo Quattrini e Gianni Capitani dialogheranno con il pubblico raccontando a partire da punti di vista inediti, o poco esplorati, come si può guardare, e cosa si può trovare in, una foto di edifici abbandonati.
Paolo Quattrini
Paolo Quattrini, psicologo e psicoterapeuta della Gestalt, collabora in qualità di psicoterapeuta e di supervisore di psicoterapeuti con vari centri del servizio psichiatrico nazionale. Didatta in corsi di formazione in psicoterapia della Gestalt in Italia, Spagna, Polonia, Brasile e Messico, Thailandia, Libano. Ha pubblicato vari articoli, il “Manuale di psicoterapia ad uso del paziente” e “Fenomenologia dell’esperienza”. Dirige attualmente l’Istituto Gestalt Firenze IGF, Firenze.
Gianni Capitani
Artista, arteterapeuta, counsellor, diplomato all’Accademia di Belle Arti di Roma, vive e lavora a Puebla in Messico dove, nel 1994, ha fondato e dirige l’Istituto di Gestalt e Arte Terapia Fenix. La sua attività artistica lo porta costantemente a confrontarsi con molte delle diverse espressività dell’arte visiva, principalmente grafica, pittorica e video-arte. Ha al suo attivo, da più di 40 anni, mostre personali e collettive in tutto il mondo.
Sono esposte le fotografie di Cristiano Antognotti, Sandro Baliani, Roberto Conte, Gualtiero Costi, Roberto Diodati, Michele Greco, Marco Orazi, Pietromassimo Pasqui, Giovanni Maria Sacco, Valeria Spiga.
Alcune immagini e gli interventi dei Proff. Prezioso e Manodori in occasione dell’inaugurazione della mostra di LostItaly presso la biblioteca Vilfredo Pareto dell’Università di Tor Vergata a Roma.
La mostra sarà ancora visitabile sino a fine luglio
Gli interventi del Professor Sagredo Manodori e della Professoressa Prezioso
L’allestimento e l’inaugurazione
Il catalogo della mostra, in vendita su Blurb
La presentazione della Professoressa Maria Prezioso
Ci sono molti motivi per apprezzare questa mostra fotografica e il lavoro, appassionato, che c’è dietro. Come molti sono i modi di visitarla. Possiamo immaginarla come un Grand Tour nella modernità, o un omaggio all’economia che fu e avrebbe potuto essere, o all’architettura e all’ingegneria funzionaliste, o all’evoluzione della teoria delle arti visive, o alla semiologia del “dentro” e del “fuori”, o alla filosofia del sogno e dell’immaginazione.
L’invito al visitatore è, tuttavia, a collocare il visto percepito nel proprio immaginario, ma non nel passato. Perché le fotografie esposte sono una forte indicazione a guardare al presente cui appartengono gli oggetti di un’architettura industriale, oggi considerata archeologia; e al futuro che potrebbero portare con sé, se si riaprisse un confronto culturale sul luogo economico.
Inquadrando questa mostra nei grandi cambiamenti che l’Europa si attende dalle città e dai territori italiani perché diano sostanza ad un’economia sempre più coesa e sostenibile, le foto fissano oggi un possibile punto di partenza. Esse, rappresentando oggetti simbolici di una crescita e di un’occupazione non più percorribile, manifestano i limiti di una politica pubblica che ha visto nelle “aree dismesse” quasi esclusivamente un problema di riuso e di recupero, suggestioni progettuali alla trasformazione di aree ormai interne alla città consolidata e alla sua dimensione economico-territoriale.
Come si può intuire guardando con attenzione ai contenuti delle foto, la dimensione interessata dai manufatti dismessi è, invece, di vasta postata. Anche limitando questo discorso a quelli industriali, ampiamente rappresentati nella mostra, gli edifici industriali hanno finito per costituire un ‘disvalore’ per il sistema urbano e territoriale di riferimento, di cui, in passato, avevano ispirato organizzazione e crescita. Fotografare edifici industriali dismessi non è, tuttavia, una rinuncia alla valorizzazione di un contesto. Semmai il contrario. E’ un ‘indizio’ che gli Autori delle immagini – di cui si apprezza anche l’aspetto artistico – regalano alla politica perché trasformi apparenti ‘vuoti’ economici e sociali in collegamenti culturali, abbandonando l’idea della relazione convenzionale. There’s nothing new, only the history you don’t know yet diceva Truman.
C’è tanto di raro, tanto di utile e tanto di reale e potenziale godibilità negli edifici che la mostra mette in luce perché non li si tratti come un bene economico. Non solo perché alcuni portano la firma di grandi progettisti che ne hanno fatto occasione di innovazione anche tecnologica. Non solo perché sono attrattori culturali per una nuova generazione ‘grigia’ fatta di writer, raver, player tecnologici che ne godono liberamente la spazialità. Non solo perché le esperienze europee ne hanno dimostrato, dagli anni ’70 dello scorso secolo, l’evidenza funzionale, economica e politica. Le foto trasmettono una relazione più profonda, dicotomica, tra perdita di funzionalità del luogo e capacità, in nuce, di essere nuovamente elemento ordinatore di una pianificazione strategica coesiva che integra il luogo nel più ampio processo di sviluppo urbano, che si misura con i nuovi temi della domanda di politica pubblica, di società e di economia: l’inclusione, degli spazi come dei migranti; l’intelligenza, tecnologica come formativa; la sostenibilità, energetica come climatica. Una capacità produttiva, insomma, urbana e territoriale, di cui i luoghi dismessi sono una parte di capitale.
Certo la scala geografica del luogo gioca un ruolo importante in questo discorso e si impone in tutta la sua evidenza soprattutto quando il recupero della dismissione tocca, per funzionalità, il livello regionale o nazionale, oltre quello locale; e, dunque, la centralità degli orientamenti delle scelte politiche. Nelle molte soluzioni che hanno affrontato il rapporto tra dismissione e intervento rigenerativo (soprattutto a Londra, Parigi, Torino e a Milano negli anni ’80), è l’intero sistema della policy, strutturale e infrastrutturale, a muoversi quando si interviene sul ‘segno’: ricucendo tessuti, rigenerando commercioe ,residenzae e housing sociale, programmando e riallocando servizi di interesse generale, migliorando accessibilità, incrementando valore fondiario non speculativo.
A questo scopo, i piani urbanistici tradizionali non servono più, mentre è sempre più importante il riferimento a categorie strategiche di ampio respiro e medio periodo. Città con un passato industriale si sono candidate a ricoprire il ruolo di capitale culturale europea per (ri)connettersi con il mondo superando il dilemma del “che fare di queste aree” definite anche derelict. Le Resurgent metropolis and city industriali – termine coniato negli US dal geografo Allen J. Scott – evidenziano una nuova dinamica dell’economia urbana basata sulla capacità di produrre sistemi cognitivi-culturali rigenerati e differenziati, in cui è fondamentale l’atteggiamento della collettività nel considerare il vantaggio competitivo rappresentato dagli edifici e dalle aree dismessi. Nei confronti dei quali una governance propria dovrebbe emergere, come già si intuiva negli anni ’80, il periodo forse più intenso, anche in termini di indagine fotografica, per ricerche e proposte dedicate agli edifici di archeologia industriale in Italia, a cui le foto in mostra sono dedicate.
Fotografarne l’interno, lo stato, la decomposizione, i “resti fisici”, come li definiva Antonello Negri, è una scelta. Come è una scelta l’allestimento della mostra in spazi generalmente dedicati ‘ad altro’. Il gioco che si sviluppa è quello della prospettiva lineare (il visitatore vede e si fa vedere) che si incrocia con un ‘labirinto panoptico’ (l’artista autore vede e fotografa ma non si fa vedere), e lancia un invito a proseguire nel suscitare emozione e sogni che accompagnano il percorso della mostra in un dialogo muto, sino a diventare parte del racconto che gli edifici industriali dismessi suscitano; fino ad immaginare e fare propri i pensieri degli Autori che li narrano.
Con la fotografia, come arte visiva, è facile e difficile allo stesso tempo trattare il tema dell’immaginazione archeologica e industriale. E’ facile, perché gli Autori fanno parlare il paesaggio, il territorio, l’economia, l’identità. E si muovono tra edifici noti, città industriali e post, città della crisi e del sociale. E’ difficile perché gli Autori hanno saputo trarre dai luoghi fascino e anima, e sembrano allontanarli dalla scienza riportando il visitatore ad un passato dimenticato o sconosciuto ai più giovani. Come non richiamare alla memoria Calvino o Le Goff se l’anima di questi luoghi, la loro vocazione intrinseca, il sogno che li accompagnava nell’ideazione dello sviluppo, non si è felicemente compiuto?
Dunque, mentre nel mondo di cui facciamo parte la città si stima, si misura, si calcola, le foto che compongono questa mostra ci parlano soprattutto di una economia che non è più e di una che non si vede ancora. Ci costringono a ripensarla ed immaginarla come vorremmo che fosse. Ci costringono a progettare.
Negli anni in cui questi edifici sono nati, l’evidenza di limiti naturali e sociali alla crescita economica non sollecitava un ampio dibattito sul tema della qualità della vita urbana: il processo politico che innervava la teoria e la pratica dello sviluppo non era ancora chiaro e non forniva interpretazioni alle crisi cicliche che la città industriale, luogo di varia agglomerazione, avrebbe vissuto. Testimoni di una identità cui appartengono per storia e cultura, questi edifici potrebbero parlare ancora. “C’è una dimensione della storia che da qualche anno ha catturato sempre più il mio interesse” scriveva Le Goff nel 1985, “la dimensione dell’immaginario. Vaga com’è per natura a maggior ragione occorre prima definirla”. E’ la rappresentazione, il documento su cui lavora il fotografo, ad essere la base dell’immaginazione, perché “nell’immaginario c’è immagine” affermava Le Goff e “questa ti può portare ovunque” se crediamo ad Einstein, perché “l’originalità di un’idea non ha lo scopo di essere stampata (solo) su un foglio di carta ma di dimostrarla valida realizzando un esperimento originale” (Blackett, 1962). E questo è quello che fa questa mostra.
La presentazione del Professor Manodori Sagredo
LostItaly ovvero la memoria di un’età industriale perduta La luce che svela le forme architettoniche più originali, i punti di vista dove le prospettive brunelleschiane accettano di convivere con altre più ravvicinate e/o panoramiche, le messe a fuoco che scandiscono superfici e tonalità dei chiaroscuri, danno alle immagini fotografiche di questa mostra un vocabolario dei più espressivi e restituiscono a quelle tutta la forza evocativa che sostanzia ogni fotografia.
I fotografi si mostrano tanto attenti quanto sensibili, avvertiti quanto partecipi con il senso ultimo dei protagonisti della scena che l’obbiettivo seleziona e inquadra.
Ma qual è il volto che si svela nelle fotografie che con tanta passione e acume i fotografi hanno saputo riprendere?
Cimiteri abitati da spettri? Fatiscenze in attesa di demolizione? Abbandono colpevole o irresponsabile oppure naturale degrado e inevitabile cancellazione di pagine di storia ormai tramontata?
Come antiche rovine archeologiche, come resti disgregati e sconvolti da antichi sismi, le strutture di architetture abbandonate resistono in virtù della recente loro disgrazia, della chiusura compianta della loro attività produttiva e della loro dimensione che nel vuoto degli spazi desolati appare gigante.
Il ritratto fotografico di tanta desolazione è segno di memoria affidata al tempo a venire, oppure è denuncia dell’indifferenza e dell’ignoranza di quanto quelle tristi forme rivelano?
Insomma c’è da correre a metter mano all’opera di conservazione e di tutela oppure è giunta l’ora di rassegnarsi alla cieca volontà del tempo che tutto divora?
Se, com’è vero, la fotografia è traccia indelebile di memoria allora le immagini degli stabilimenti, per lo più industriali ma non solo, custodiscono i segni di ardite architetture che rivelano la creatività dell’ingegno imprenditoriale e la forza del lavoro operaio.
L’impegno dell’Italia che seppe risorgere dalle macerie della infausta e disgraziata guerra è scolpito come geroglifico incancellabile nelle volte aeree o nei moltiplicati pilastri che disegnano lo spazio che un tempo risuonò della voce delle macchine e degli uomini.
I resti della grande industria italiana della seconda metà del Novecento come cattedrali scomunicate sono ora attraversati dal vento e accendono in chi le guarda un’emozione coinvolgente che rievoca più antiche grida di dolore.
I fotografi di LostItaly hanno avuto il coraggio di penetrare nel silenzio di sale che il vuoto rende sempre più grandi e di puntarvi l’obbiettivo fotografico per prenderne non solo l’abbandono ma l’agonia in corso, come se le pareti scorticate di cemento armato affannosamente e impercettibilmente respirassero.
I fotografi hanno auscultato il polso degli edifici abbandonati e hanno fatto della macchina fotografica lo strumento capace di far scattare una inaspettata presa di coscienza in coloro che vedranno le immagini riprese.
Un dialogo e non solo una constatazione si genera tra le fotografie e chi le osserva che è così costretto o sospinto a prendere una posizione tanto morale quanto intellettuale, tanto di partecipazione quanto affettiva perché si accorge che quel mondo dimenticato gli appartiene e che lui stesso ne è parte.
Allora alcune fotografie acquistano un valore aggiunto proprio perché legate alle altre come quelle degli abiti dimenticati dei reclusi in un ospedale psichiatrico sulle cui maniche sta la fascia identitaria che ricorda ben altri segni, tristi anzi tragici, apposti su abiti e divise, oppure quelle di ville settecentesche abbandonate e spogliate da mani furtive che sembrano chiedere spiegazione e giustificazione di tanta oltraggiosa dimenticanza.
Come figli abbandonati, orfani non dei genitori che le misero al mondo ma degli eredi che non le riconoscono più, tutte le architetture fotografate mostrano una salda dignità di non piangere e nel contempo il coraggio di lasciarsi fotografare nella loro cruda e desolante nudità.
Questa mostra è quindi un atto d’accusa che non ammette ricorso in appello e basta osservarne le fotografie per schierarsi dalla parte degli ultimi difensori.
dal 29 marzo al 29 luglio 2017
presso Biblioteca Vilfredo Pareto – Facoltà di Economia, Università degli Studi di Roma Tor Vergata
Via Columbia, 2 – Roma – tutti i giorni (sabato escluso) dalle 10:00 alle 19:00
Inaugurazione 29 marzo 2017 ore 17
con la partecipazione dei prof. Maria Prezioso e Alberto Manodori Sagredo
Più di dieci anni fa un piccolo gruppo di fotografi dilettanti decise di riunirsi in un forum per condividere una grande passione: i luoghi abbandonati.
All’epoca quasi soltanto all’estero esistevano fotografi che scoprivano, esploravano e raccontavano fabbriche, manicomi, ospedali e ville dimenticati da tutti.
Da allora l’attività fotografica di questo gruppo si è sempre affiancata al recupero delle informazioni storiche sui luoghi, con l’obiettivo di creare una sorta di memoria collettiva di un mondo che sta pian piano sparendo e le cui tracce sopravvivono soltanto nelle nobili macerie dimenticate da tutti.
Da questo progetto nasce LostItaly.it, dove molti di questi luoghi sono raccontati con notizie storiche e fotografiche.
La possibilità di ritrarre luoghi in abbandono che abbiano una valenza estetica sta pian piano scemando, poiché ormai quel che viene costruito oggi e sarà abbandonato in futuro, ha sempre più raramente una peculiarità architettonica che lo possa rendere affascinante nel suo declino.
Da qui l’interesse e l’importanza del lavoro di rappresentazione e ricerca svolto da LostItaly.it, che intende conservare la memoria storica di luoghi importanti per la nostra società e non solo per chi li ha vissuti tramandandoci, quasi sempre inconsapevolmente, tracce della propria esistenza.
Sono esposte le fotografie di Cristiano Antognotti, Sandro Baliani, Roberto Conte, Gualtiero Costi, Roberto Diodati, Marco Orazi, Pietromassimo Pasqui, Giovanni Maria Sacco, Valeria Spiga.
La prima manifattura tabacchi a Bologna venne realizzata ad inizio ‘800 in via Riva di Reno.
Sorgeva accanto al fiume Reno di cui utilizzava l’acqua per i processi produttivi e nacque da un convento di suore domenicane che, con l’annessione di Bologna alla Repubblica Cisalpina del 1799, venne requisito e trasformato in manifattura tabacchi.
La manifattura “vecchia” di via Riva di Reno
L’edificio principale, che affacciava sul canale, conserva tuttora la facciata originale frutto della totale riprogettazione del 1906 ad opera dell’architetto Gaetano De Napoli. Attualmente (2016) il palazzo della manifatttura “vecchia” è sede della Cineteca di Bologna.
La “nuova” manifattura di Pier Luigi Nervi
Nel 1949 l’Amministrazione Monopoli di Stato bandisce un concorso per la realizzazione della nuova manifattura tabacchi che viene vinto da Pier Luigi Nervi. Fu, come di consueto, lo stesso nervi, con la sua azienda, a costruire la manifattura che venne ultimata nel 1952.
La prima parte, che viene ultimata da Nervi nel 1952, è il magazzino tabacchi greggi in balle. Si tratta di un edificio di cinque piani lungo 210 metri costruito utilizzando casseforme in ferro-cemento poste in opera rapidamente e senza bisogno di dover montare e smontare le casse per le colate di cemento.
Il magazzino tabacchi greggi in balle
E’ invece del 1954 la realizzazione, sempre da parte di Nervi, dei cinque capannoni destinati allo stoccaggio dei tabacchi grezzi in botti. Si tratta di cinque strutture parallele lunghe 117 metri, con tetto a volta in cemento.
I cinque magazzini tabacchi greggi in botte (in costruzione)
Il terzo edificio di estremo pregio costruito da Nervi per la manifattura di Bologna, è il magazzino del sale che si trova alle spalle dell’edificio principale e venne costruito con la forma di paraboloide.
Completano il complesso la centrale termica e gli uffici sul fronte principale, questi ultimi demoliti completamente.
Pianta dell’area. Gli edifici evidenziati in giallo sono stati demoliti (2016)
Nel momento di massima espansione presso la manifattura di Bologna arriveranno a lavorare oltre mille persone.
Nel 2003 i Monopoli di Stato italiani vendono tutte le proprie attività alla British American Tobacco che gradualmente dismette tutti i siti produttivi, chiudendo nel 2004 anche la manifattura di Bologna. Da quel momento il complesso viene lasciato in stato di abbandono per anni, diventando anche rifugio di senza tetto e piazza di spaccio.
Nel 2011 la Regione Emilia Romagna bandisce un concorso di progettazione per la riqualificazione ed il recupero funzionale dell’ex manifattura tabacchi per la realizzazione del tecnopolo di Bologna. Nel 2015 iniziano i lavori con la demolizione completa degli uffici fronte strada.
Il quartiere dell’EUR, a sud di Roma, venne pensato, progettato e realizzato come sede dell’Esposizione Universale del 1942, da cui l’acronimo. Realizzato negli anni 30 del secolo scorso, non fu mai terminato a causa dello scoppio della seconda guerra mondiale.
Al termine della guerra ci si ritrovò, quindi, con una monumentale opera incompiuta e le Olimpiadi del 1960 furono l’occasione per rimettere mano a quest’area. Il commissario straordinario dell’Ente EUR, Virgilio Testa, portando avanti un progetto di decentramento amministrativo della capitale, incarica un pool di architetti della costruzione della nuova sede del Ministero delle Finanze su un’area di oltre 15.000 mq. Gli architetti scelti saranno Cesare Ligini, Vittorio Cafiero, Guido Marinucci e Renato Venturi.
E’ prevalentemente Cesare Ligini ad occuparsi della progettazione della nuova sede, pensando tre alte torri affiancate da altre due costruzioni più basse. Quattro edifici comunicano tra loro con una struttura di raccordo al primo piano.
Le due costruzioni più basse ospitano, rispettivamente, la sede del Ministro con gli uffici di rappresentanza e la sede del Comando Generale della Guardia di Finanza. Le tre alte torri, invece, sono adibite ad uffici ed archivio.
Il complesso delle torri in una cartolina d’epoca
Il complesso delle torri in un fotogramma del film Il boom di Vittorio De Sica (1963)
L’interno del complesso in un fotogramma del film Boccaccio ’70 (1962)
Ancora da Boccaccio ’70 (1962) una panoramica dell’EUR presa dal Palazzo dello Sport. A destra il complesso delle torri
A seguito dello spostamento degli uffici del Ministero le torri sono rimaste in stato di abbandono sino al 2007 quando, per evitare probabilmente il sopraggiungere di vincoli storici che ne avrebbero bloccato qualsiasi trasformazione, furono interamente spogliate lasciando soltanto la struttura in cemento armato. Accanto ad esse stava sorgendo la cosiddetta Nuvola di Fuksas e una cordata di imprenditori, tra cui Fintecna e Ligresti, ottenne l’autorizzazione per finire l’abbattimento degli scheletri e costruire un maxi-condominio di lusso progettato dall’architetto Renzo Piano.
Il complesso delle torri come appare nel 2015 nelle immagini aeree di Google maps
Le torri stavano quindi per subire lo stesso destino di un’altra importante realizzazione di Ligini all’EUR, il Velodromo Olimpico, che venne abbattuto nel 2008.
La successiva crisi immobiliare spinse gli investitori privati a ritirarsi e per anni le torri sono rimaste scheletri di cemento abbandonati a se stessi, a un passo dal grattacielo dell’ENI e dal Palazzo dello Sport, progettato da Pierluigi Nervi.
A fine 2015 iniziano i lavori di ristrutturazione per realizzare il nuovo quartier generale della Tim all’interno delle torri, ma a metà 2016 il Comune di Roma revoca i permessi e Tim si ritira riportando l’area al completo abbandono.
La ristrutturazione in corso nel 2016: il cantiere Telecom Italia
Soci è una frazione del comune di Bibbiena attraversata da un’arteria statale, la SR71. Passata la piazza della chiesa vecchia, in direzione Camaldoli, incrociamo via del Lanificio e via del Tessitore. Questi nomi, insieme ad alcuni edifici, sono ciò che resta di una grosso complesso industriale; come altri nella zona, si occupava della lavorazione della lana. Deve la sua nascita al Berignale che attraversa il paese; un canale che sin da tempi antichi, forniva energia alle gualchiere per la sodatura della lana.
La nascita del lanificio fu opera di un cittadino di Soci, Giuseppe Bocci, che nei primi dell’ottocento iniziò questa attività sino alla creazione di un grosso polo industriale. Per rendere moderno il suo lanificio, Giuseppe mandò suo figlio Sisto a lavorare in Belgio. Qui, all’epoca, erano all’avanguardia nella lavorazione dei tessuti. Sisto tornò in Italia con esperienza e macchinari moderni. Tutto questo, portò alla fine dell’ottocento, alla creazione di un complesso con circa 500 dipendenti e alla produzione di rinomati manufatti, come il famoso tessuto del casentino.
Sisto Bocci, muore nel 1915, lasciando tutto in eredità ad un nipote, Adriano, che morirà al fronte durante il primo conflitto mondiale. La famiglia Bocci, decide di vendere il lanificio ad un industraile di Brescia, Giovan Battista Bianchi. Questi, modernizza la fabbrica, ampliandone la metratura. Purtroppo, la crisi finanziaria del 1929, trascina le aziende Bianchi e con esse il lanifico, verso il fallimento. I curatori del tribunale di Milano, si accorgono del buono stato di salute dell’azienda, tanto che uno di essi, Virgilio Maranghi, ne diventa propietario. Il lanificio riesce a fatica ad attraversare la seconda guerra mondiale sino ad un inevitabile fallimento del 1956.
L’attività passa così all’industriale pratese Brachi per poi fallire definitivamente nel 1970.
Sono gli stessi operai e tecnici a costituirsi cooperativa per poter continuare l’attività. Dal 1972 la Cooperativa Tessile di Soci (questo è il nome della nuova Azienda) produce stoffe conto terzi, con reparti di filatura, cordato, filatura pettine, tintoria in fiocco, tintoria in pezze, finissaggio.
Il signor Marchesini entra alla presidenza; acquistando immobili e macchinari e lanciando il marchio “Lanificio del Casentino”. Un accordo con il Comune di Bibbiena porta alla vendita di gran parte degli edifici storici che saranno trasformati in zone commerciali e abitazioni. La parte ancora produttiva viene ampliata. Tutto questo con il contributo della Comunità Europea.
Dopo un periodo di grossa produttività, tutto si arresta con la crisi del settore tessile, sino al nuovo fallimento del 2005. Ancora una volta la situazione vine presa in mano dagli operai che costituiscono una nuova cooperativa.
Ad oggi (2015) anche questa parte di attività è cessata. Soci non ha più la sua fabbrica tessile.
Proseguono invece le vicende processuali, come riporta questo articolo della rivista “Casentino 2000” datato 17 ott 2012:
“Un buco di bilancio nato da una operazione con una società della Mongolia che serviva a risparmiare milioni di iva non versata allo stato. Da questo alla bancarotta il passo è stato breve ed ha portato l’amministratore del Lanificio di Soci Simonello Marchesini in tribunale. Durante l’udienza il pubblico ministero ha chiesto per lui la condanna a 4 anni e mezzo di reclusione. Secondo la procura aretina sarebbero state evase notevoli cifre: 4 milioni di iva, e altri 14 milioni di tributi vari. Secondo le ricostruzioni sarebbe stata messa in piedi una triangolazione con la Mongolia con una fittizia esportazione di capi dal Lanificio che in realtà non venivano mai spediti. A partire erano solamente i documenti contabili, le bolle di spedizione, mai accompagnate dall’abbigliamento. In tribunale la corte presieduta dal giudice Bilancetti è però chiamata giudicare solo la bancarotta, non compaiono infatti i reati fiscali scaturiti dalle spericolate operazioni.”
Del grosso complesso industriale di inizio ‘900, rimangono alcuni edifici ristrutturati.
Una parte, ancora originale, versa in totale stato di abbandono. Sino al 2012 era ancora possibile trovare al suo interno i vecchi macchinari tessili. Oggi, questi sono stati tutti rimossi, alcuni destinati ad essere restaurati. L’edificio ha subito ingenti danni con crolli, causati dalla neve e altre intemperie. Attività di bonifica erano in corso nell’agosto del 2015.
Resta, invece, ancora immutata, la parte interessata dall’ultimo fallimento.
Parte della storia è anche presente nel volume “L’arte della lana in casentino-Storia dei lanifici” scritto da Pier Luigi della Bordella.
Di seguito, alcune vecchie cartoline del paese di Soci:
Sullo sfondo le ciminiere del vecchio stabilimento
Come si presentava l’intera area industriale ad inizio del ‘900
Galleria fotografica
Di seguito alcuni scatti della parte vecchia, risalenti all’agosto del 2012. Ad oggi, 2016, l’area è stata svuotata ed è in corso la bonifica
La società SAVA (Società Alluminio Veneto Anonima) venne costituita Il 7 dicembre 1926 dalla svizzera AIAG, la futura Alusuisse, in associazione con alcuni industriali italiani dell’energia elettrica, rappresentati da Marco Barnabò, e si divise la produzione di alluminio e allumina in duopolio con l’italiana Montecatini.
Nel 1928 venne costruito il primo impianto SAVA di Marghera sfruttando le esenzioni fiscali, la logistica del porto e la vicinanza agli impianti idroelettrici, fondamentali per garantire la grande quantità di energia richiesta dai processi di elettrolisi e fusione. Nell’immediato dopoguerra l’acronimo SAVA resta invariato ma il nome della società muta in Società Alluminio Veneto per azioni.
Lo stabilimento SAVA di Marghera Fusina, di cui ci occupiamo qui, venne costruito tra il 1962 e il 1964.
E’ del 1973 l’acquisizione della SAVA da parte dall’EFIM e del 1988 il cambio di ragione sociale in Alumix, caposettore della produzione di alluminio nel gruppo EFIM.
Nell’era EFIM le attività legate all’alluminio furono sostenute anche con i capitali della Società mineraria carbonifera sarda (Carbosarda), acquisita dall’EFIM nel 1964 e già attiva nel settore dell’alluminio con gli impianti di Portoscuso e Iglesias, in Sardegna.
Nel corso degli anni le perdite economiche (comunque coperte dallo Stato, visto che EFIM era una finanziaria del sistema delle partecipazioni statali) si fecero sempre più importanti portando alla graduale dismissione dell’impianto sino alla chiusura avvenuta nel 1991. La chiusura fu accompagnata da forti dimostrazioni degli operai, come ci testimoniano alcuni articoli di giornale dell’epoca.
Nel 2013 l’area, a seguito esproprio a fini di utilità pubblica, viene bonificata con la completa demolizione delle strutture, e riutilizzata come terminal navale.
L’area SAVA prima e dopo la riqualificazione del 2013
L’impianto SAVA di Marghera Fusina era composto da cinque parti principali:
Il capannone dei forni per l’elettrolisi lungo 450 metri
La fonderia
Il silos di stoccaggio dell’allumina
La centrale elettrica
I serbatoi dell’olio combustibile per alimentare la centrale elettrica
Planimetria della SAVA di Marghera Fusina
Capannone forni elettrolisi
La parte più affascinante dell’intero impianto era senz’altro il capannone forni, una struttura imponente in cemento armato lunga oltre 450 metri. Nella relazione geotecnica redatta durante la fase progettuale tale edificio è così qualificato:
“Il capannone forni per l’elettrolisi è di 450 m di lunghezza, di 23 metri di larghezza e di 22,50 m di altezza. […] La parte inferiore del capannone è formata da elementi di cemento armato costituenti la struttura di sostegno dei forni e della carpenteria metallica formante la parte superiore del capannone. […] La struttura trasmette dei carichi variabili tra 175 e 340 ton a piastroni posti a distanza di 9,75 m da asse ad asse. ”
La fonderia
L’edificio della fonderia era così composto:
“La fonderia è costituita da un fabbricato dalle dimensioni di 108 m di lunghezza e 54 m di larghezza. […] Sempre in questo edificio la formazione di due forni per le macchine a colata continua ha costituito un problema di una certa delicatezza. I due forni di 17 m e di 12 m di profondità e di 2,2 m di diametro sono stati formati per sottoscavo all’interno di tubi prefabbricati a elementi sovrapponibili.”
Silos allumina
Per quanto riguarda invece il silos dell’allumina, che alimenta i forni, queste le caratteristiche:
“Il silo per allumina della portata di 6000 ton è a forma circolare di 23,20 m di diametro e di circa 35 m di altezza. La cella contenente l’allumina interessa però la parte alta del silo per un’altezza di circa 25 m compresa la cupola e la camera di caricamento. […] Il silo è entrato in esercizio nel dicembre 1963 contenendo mediamente durante il periodo rilevato un carico di 3000 ton di allumina.”
Centrale termoelettrica
I processi di produzione elettrolitici necessitano di una enorme quantità di corrente (non a caso la SAVA venne fondata in consocietà con importanti imprenditori dell’industria idroelettrica italiana). Per far fronte ai picchi di consumo e per compensare cali di fornitura esterna l’impianto venne dotato di una centrale termoelettrica alimentata a olio combustibile.
“Il cassone principale comprende il turbogruppo, la sala quadri ed altre apparecchiature è lungo 58,15 m e largo 47,10 m. L’altro cassone di supporto della caldaia è lungo 26,48 m e largo 17 m. […] Un’altra opera di una certa entità facente parte della centrale termica è il camino. Alto 60 m è a forma di tronco di cono con diametro di base di 5,3 m e diametro di sommità di 2,90 m.”
Serbatoi olio combustibile
La centrale termoelettrica era alimentata a olio combustibile immagazzinato in tre serbatoi circolari. I due principali avevano capacità di 10.000 m³ e misuravano 35,6 m di diametro e 11 m di altezza. Il terzo, da 500 m³, aveva un diametro di 8 m.
C’era una volta, a Roma, il parco divertimenti più antico d’Italia la cui costruzione risale al lontano 1953. Il nome deriva dal quartiere, EUR (Esposizione Universale Romana, splendido esempio di architettura razionalista), dove il parco risiede. Le attrazioni, completamente meccaniche, cessarono l’attività nel 2008 su disposizione della prefettura di Roma per garantire la messa in sicurezza di tutta la zona. Il parco ha una estensione di circa 68.000 metri quadri, dei quali più di 50.000 sono destinati alle attrazioni che, stando agli attuali progetti e lavori di ristrutturazione (ad opera della Cinecittà Entertainment s.p.a.), dovrebbero essere destinate a bambini dai 0 ai 12 anni. Chi ha avuto la fortuna di entrare al LunEur nel periodo migliore della sua lunga storia, ovvero a cavallo degli anni ’70 e ’80, non può non ricordarlo come un po’ pacchiano e – a suo modo – decadente già allora. Purtroppo il parco non ha mai saputo rinnovarsi: solo nel 2007 vengono aggiunte alcune nuove attrazioni e si introduce un biglietto unico di ingresso, nel duplice tentativo di aumentare gli incassi e tenere lontani personaggi “indesiderabili”. Tuttavia, anche in considerazione del fatto che alcune attrazioni più “appetibili” richiedevano un supplemento, gli esercenti iniziarono ad avere diverbi sulla ripartizione degli incassi e, dopo solo un anno da questo tentativo di miglioramento, il parco chiude i battenti. Si spengono le luci e la musica, lasciando un vuoto che difficilmente verrà colmato con la nuova riapertura.
Il video seguente, girato in Super8, ci mostra come era il parco negli anni ’70:
Inoltre, curiosamente, una delle migliori attrazioni del parco, il Looping Star (montagne russe), di cui è visibile una foto (fonte www.italiaparchi.it), è stata ricollocata – mentre il LunEur era ancora in funzione – in un altro parco divertimenti di Roma, ZooMarine.
Dal momento della chiusura fino al 2012, quando sono iniziati i lavori di ristrutturazione che dovrebbero terminare nella primavera del 2016 (vedi articolo), il parco è restato chiuso ed in stato di totale abbandono.
Nonostante un clima generale di miseria e arretratezza economica, a partire dal 1738 a Stia la manifattura della lana conobbe un improvviso sviluppo, grazie al motu proprio di Francesco III di Lorena che liberalizzava la produzione e il commercio dei panni lana su tutto il territorio toscano, per secoli monopolizzati dall’Arte della lana fiorentina.
Nel giro di qualche decennio, l’esercizio dell’arte della lana cominciò ad innovarsi, trasformandosi da artigianale a più moderna attività imprenditoriale, per merito in particolare della famiglia Ricci, che acquisì e riorganizzò vari opifici preesistenti tra loro vicini, e dei fratelli Beni.
Intorno al 1830 Marco Ricci avviò la meccanizzazione di alcune fasi produttive, come avveniva già da diversi decenni nei paesi europei più evoluti.
La fabbrica Ricci e la fabbrica Beni di Stia, oltre alla Mazzoni di Prato, furono i primi lanifici toscani ad introdurre le macchine, importate dall’estero. Questo valse loro la visita del granduca Leopoldo II nel 1838, mentre la qualità dei loro prodotti fece meritare una medaglia d’oro alla Esposizione d’arti e manifatture toscane di Firenze del 1839, cui fece seguito, per la società Ricci, un’altra medaglia d’oro nel 1844 e l’assegnazione della fornitura dei panni militari per l’esercito toscano.
Nel 1852, dopo una grave crisi economica che portò alla chiusura del lanificio Beni, Marco Ricci costituì con altri soci la Società di Lanificio di Stia.
Nei primi anni 60, grazie all’apporto di capitale da parte di altri soci, il lanificio di Stia occupava circa 140 operai. Le lavorazioni avvenivano in edifici vicini ma staccati. Sette ruote idrauliche dislocate in punti diversi muovevano i macchinari posti nei diversi stabilimenti.
All’Esposizione Nazionale Italiana di Firenze del 1861, la prima dell’Italia unita, il Lanificio di Stia ebbe l’importante riconoscimento della medaglia d’oro per i panni militari.
Tra il 1862 e il 1888, sotto la direzione di Adamo Ricci, fu completata la meccanizzazione di tutto il processo produttivo e razionalizzato il complesso degli stabilimenti.
Un risultato prestigioso fu l’invito a partecipare all’Esposizione universale di Parigi nel 1867.
Con i figli di Adamo il lanificio fallì e cessò la conduzione, durata più di un secolo, della famiglia Ricci. L’attività venne rilevata nel 1894 da una società costituita dai principali creditori, il cui pacchetto di maggioranza divenne negli anni successivi di proprietà della famiglia Lombard.
A dirigere il lanificio fu chiamato il veneto Giovanni Sartori, che aveva avuto come “maestro” il fondatore della Lanerossi di Schio, Alessandro Rossi.
Egli riammodernò la fabbrica, portandola ai livelli dei più importanti lanifici italiani.
Fece realizzare un condotto, scavato nella collina, per portare l’acqua dalla vecchia Tintoria e azionare due turbine idrauliche che generavano energia elettrica per il funzionamento di tutto il lanificio.
Sotto la sua direzione il complesso edilizio del lanificio raggiunse la configurazione attuale.
Giovanni Sartori morì prematuramente nel 1918, quando il lanificio era all’apice del suo prestigio: fornitore ufficiale di Casa Savoia e al più alto livello di occupazione, con 500 operai, circa 136 telai e una produzione di oltre 700.000 metri di stoffa.
Nel periodo fra le due guerre il lanificio di Stia resse la concorrenza, ma, dopo l’ultima guerra, entrò in una crisi irreversibile: nel 1962 venne venduto da Luigi Lombard all’industriale pratese Morelli, nel 1978 Morelli ne cedette la gestione alla Società Ci.Mo. Export che, nel 1985, fallì.
Nonostante i tentativi di ripresa, tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta, il lanificio non riuscì a ripartire con l’attività e venne definitivamente chiuso nel 2000.
Galleria foto storiche
Gran parte del lanificio è stato ristrutturato e destinato ad ospitare un museo permanente sul panno casentinese e la sua lavorazione. All’interno fanno bella mostra di se molti dei macchinari che vediamo nelle foto storiche, perfettamente restaurati.
Di seguito, una veduta dell’entrata del museo:
Stia ingresso
In un’altra ala, sono presenti spazi espositivi, destinati ad ospitare mostre di vario genere.
Alcuni locali, siti al piano terra, sono adibiti a negozi. Qui si vendono manufatti confezionati con il famoso panno casentinese.
Un’altra ala rimane, ad oggi, ancora in attesa di essere ristrutturata. Di seguito la situazione di questi locali ad agosto 2015:
Nel 1932 sette operai della SAID (Societa’ Anonima Industrie Dattilografiche di via Friuli a Milano) decidono di investire 82.000 lire sul proprio futuro e acquistano a Crema (CR) un vecchio stabilimento dismesso, tra via del Mulino e viale Santa Maria della Croce, dove venivano prodotti chiodi per ferri di cavallo. Fondano, lo stesso anno, la Società Anonima Serio e iniziano a produrre macchine da scrivere.
Il primo modello di grande successo, nel 1934, è la Everest 42 che è anche la prima macchina da scrivere al mondo ad adottare una tastiera su quattro file (invece di tre come in uso sino ad allora), definendo così uno standard che sarà universalmente adottato da tutti i produttori del mondo.
Nel 1940 la Serio (ormai conosciuta come Serio Everest grazie alla popolarità della sua 42) conta 509 operai, 26 impiegati, 63 agenzie di vendita in Italia, e un indotto costituito da alcune centinaia di meccanici aggiustatori.
Nel 1950 la produzione si estende, oltre alle macchine da scrivere, anche alle addizionatrici elettriche a tre operazioni.
La mensa della Serio nel 1950
Nel 2011
Alla fine degli anni ’50 inizia una fase di stagnazione dovuta alla scarsa volontà della proprietà di investire nel rinnovamento degli impianti e si giunge, nel 1960, all’acquisizione da parte della Olivetti. Per alcuni anni nulla cambia e la Serio continua a produrre autonomamente la propria linea di prodotti. E’ solo nel 1969/70 che il marchio Serio sparisce per sempre e la produzione diviene interamente Olivetti, con la costruzione di un nuovo impianto poco distante, in via Bramante. Oltre alla costruzione dello stabilimento la Olivetti crea una era e propria piccola città nella città con alloggi e facilities destinate agli operai, nello stile del compianto Adriano Olivetti morto nel 1960.
Con la nascita del nuovo stabilimento, l’impianto di via Molino viene prima convertito in magazzino e poi lentamente abbandonato.
Nel 1970 l’Olivetti conta, a Crema, 3150 lavoratori. Il polo progettuale e produttivo rimane all’avanguardia per molti anni ancora arrivando, nel 1978, alla progettazione e produzione della ET 101, prima macchina da scrivere elettronica al mondo.
Oltre allo stabilimento di via Molino, oggetto di questa scheda e ad oggi – 2015 – ancora abbandonato , anche quello di via Bramante sarà chiuso definitivamente nel 1992.
Attualmente l’area ex Olivetti di via Bramante ospita una serie di piccole imprese e il Dipartimento di informatica dell’Università di Milano.
Nel Gargano, sulle sponde del lago di Varano, sono ancora presenti le rovine dell’Idroscalo Ivo Monti. La costruzione dell’idroscalo iniziò nel 1915, durante il primo conflitto mondiale e l’area venne scelta per la particolare posizione protetta e per la vicinanza all’area di guerra (con gli Austro-Ungarici attestati sulle isole Curzolane).
La decisione di costruire l’idroscalo fu presa dopo un sopralluogo del capo dello Stato Maggiore della marina italiana, Thaon di Revel.
La costruzione avvenne in fasi successive con il graduale ampliamento dell’idroscalo man mano che sorgeva l’esigenza di potenziarne la struttura. I lavori, soprattutto all’inizio, furono estremamente gravosi poichè si dovette superare una serie di ostacoli non indifferenti: dalla malaria alla quasi completa mancanza di infrastrutture di comunicazione.
Alcune scritte ancora presenti all’interno della palazzina del corpo di guardia dove erano in servizio i Carabinieri
Il battesimo del volo avvenne, comunque, nel 1916.
Il nome dell’idroscalo viene da Ivo Monti, pilota morto il 6 giugno 1918, durante un volo di ricognizione.
Al termine del primo conflitto mondiale il personale di stanza diminuì sensibilmente per tornare a crescere con lo scoppio della seconda guerra mondiale. Durante il conflitto il ruolo strategico dell’idroscalo fu comunque molto marginale e al termine venne lentamente abbandonato.
Ad oggi (2015) sono ancora presenti molti degli edifici (tra cui, all’ingresso, il corpo di guardia che era affidato ai Carabinieri) usati ormai come ricovero per il bestiame. Di fronte all’idroscalo, su una collinetta, sorge la chiesa di Santa Barbara (edificata nel 1920) anch’essa abbandonata.
La S.L.O.I. (Società lavorazioni organiche inorganiche) è stata un’azienda chimica che produceva piombo tetraetile (TEL). Il TEL è stato l’additivo antidetonante utilizzato nella benzina per evitare fenomeni di autoaccensione e battito in testa, sino al passaggio alla cosiddetta benzina senza piombo.
Fondata nel 1935 a Ravenna, su idea del chimico Carlo Luigi Randazzo, apre nel 1939 lo stabilimento di Trento. La scelta della sede fu dettata da motivazioni logistiche: Trento si trovava vicino al confine italiano ed era efficacemente collegata alla Germania, alleata dell’Italia, tramite la ferrovia del Brennero. Era quindi possibile fornire facilmente il TEL, utilizzato principalmente per il carburante degli aerei, anche all’alleato nazista. Lo stabilimento di Trento era l’unico, in Europa, a produrre tale sostanza.
Al termine del conflitto mondiale la S.L.O.I. continuò la produzione del TEL per usi civili e l’incremento di automobili con il boom economico rese sempre più necessaria questa produzione.
Le condizioni di lavoro alla S.L.O.I. erano a doppia faccia: da una parte il salario era ottimo ma dall’altra erano assolutamente carenti (come spesso nel dopoguerra) le misure di prevenzione e di tutela sanitaria dei lavoratori con la loro costante intossicazione da piombo (saturnismo). L’intossicazione da piombo agisce, tra l’altro, danneggiando il sistema nervoso centrale con sintomi pesanti sul comportamento (violenza, irritabilità ed altri disturbi psichici). Spesso questi sintomi non venivano associati all’avvelenamento e quindi gli operai venivano internati nel manicomio di Pergine e trattati come malati di mente.
Negli anni venne crescendo una sempre maggiore consapevolezza dei rischi per la salute che lo stabilimento comportava (nel 1975 il patron dell’azienda, Randazzo, venne condannato a cinque anni per omicidio colposo) fino ad arrivare al capitolo finale che provocò la chiusura definitiva.
Il 14 luglio 1978 un forte temporale si abbatté su Trento e l’acqua raggiunse alcuni fusti di sodio mal custoditi nello stabilimento, innescando un grande incendio. Se le fiamme avessero raggiunto i fusti di TEL la nube tossica avrebbe decimato la popolazione della città. L’esperienza del capo dei vigili del fuoco Ing. Nicola Salvati, che utilizzò per le operazioni di spegnimento la polvere di cemento prelevata dal vicino stabilimento Italcementi, scongiurò la sciagura, ma l’enorme rischio corso portò le autorità ad imporre la definitiva chiusura della fabbrica.
Abbandonata a se stessa divenne rifugio di tossicodipendenti, prima, e di senzatetto poi sino a quando iniziarono nel 2011 i lavori di bonifica con l’abbattimento di quasi tutti gli edifici. Ad oggi (2015) rimane in piedi lo scheletro dell’edificio forni e la torre dell’acqua. Il vero problema della bonifica, però, rimane irrisolto: nel suolo si stima siano presenti oltre 180 tonnellate di piombo, separate da un sottile strato di argilla impermeabile dalla sottostante falda acquifera. Non esistono al mondo esperienze di bonifica piombo di questa portata.
Gli antichi processi di produzione della carta hanno sempre richiesto che un elemento fondamentale fosse disponibile in grande quantità: l’acqua.
Sin dal XV secolo, lungo il fiume Aniene nel Lazio, è documentata la presenza di opifici per la produzione della carta. Tra i vari centri urbani che ospitavano le cartiere Continua a leggere →
La penicillina venne ufficialmente scoperta in Inghilterra nel 1928 ad opera di Alexander Fleming, che per tale scoperta venne insignito del premio Nobel nel 1945, unitamente con Ernst Boris Chain e Howard Walter Florey.
Il primo utilizzo su larga scala della nuova scoperta avvenne durante la seconda guerra mondiale, ad opera principalmente degli americani che, a partire dal 1944, iniziarono a renderla disponibile anche per l’Italia. Al termine del conflitto l’Italia Continua a leggere →
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