Miniera del Morone

La miniera si trova nella frazione di Salvena, nel territorio del comune di Castell’Azzara, in provincia di Grosseto. Di seguito alcune informazioni:

Minerali presenti: Cinabro, Pirite, Realgar, Opimento, Melanterite, Alunite, Kermesite, Dawsonite, Mercurio nativo, Zolfo, Gesso, Anidride. Quarzo, Caleopirite-quarzo.
Sostanze estratte: Hg (Mercurio), Sb (Antimonio), S (Zolfo), Cu (Rame).
Descrizione naturalistica: Mineralizzazione cinabrifera posta in calcari canidriti retici; calcari nummulitici cocenici e formazioni argillose delle Liquiridi. Il giacimento si è sviluppato con disseminazioni, sostituzioni e patine intorno ai camini riempiti di argilla cinabrifera. La Stibina si ritrova associata a Gesso e Cinabro o in Quarzo. A Borghetto tracce di minerali cupriferi in ganga quarzosa.
Descrizione storica: Si tratta del giacimento minerario più noto per essere sfruttato con continuità in epoca preindustriale; vi sono stati rinvenuti arnesi in pietra ed armature ignee; il giacimento inoltre risultò sfruttato fin dove era possibile in antico, cioè fino al livello delle acque. Riaperto da Haupt nel 1873 produsse il primo minerale solo nel 1906. E attestata l’esistenza di una fornace.
Interpretazione storica: Oltre alle tracce di lavorazione di epoca preromana, disponiamo per le miniere di Selvena, di documenti medioevali che attestano lo sfruttamento da parte degli Aldobrandeschi, nel XV secolo. Biringuccio parla di una miniera di Antimonio, nei secoli XVI e XVII, è attestata anche l’estrazione del Vetriolo. La miniera di Mercurio, riaperta neI 1873, ha cessato la propria produzione nel 1985.
Epoche di sfruttamento: Preromana, Medioevale, Medicea, 1873 – 1882, 1889- 1985.

La miniera del Morone inizia l’attività produttiva il 9 gennaio 1906 quando venne acquistata dalla società mineraria Monte Amiata; prima di tale data la proprietà era della società “The Santa Fiora Mercury Limited”. Gli operai all’epoca lavoravano undici ore al giorno, con paghe bassissime, senza assistenza sanitaria e con frequenti casi di sfruttamento di manodopera giovanile. Per poter risolvere questi problemi si dovette arrivare alle grandi lotte dell’ottobre 1914 e del giugno 1919, quando i minatori reclamarono commissioni paritetiche per la composizione delle vertenze di lavoro, casse per malattie professionali, farmaci ed infermerie adeguate per la miniera, sette ore di lavoro per gli interni e otto per gli esterni. La società Amiata venne a patti novantacinque giorni dopo. Le rivendicazioni continuarono anche sotto il governo fascista, che con arroganza, prepotenza e continue discussioni creava molte difficoltà ai minatori. La conseguenza di queste proteste, purtroppo, portò alla perdita del posto di lavoro di buona parte dei quattrocento minatori tra Selvena, Castell’Azzara e Santa Fiora. Un altro grave problema di quegli anni era l’inadeguatezza delle misure di sicurezza, che causarono diversi incidenti di cui due mortali. La ditta, verso la fine degli anni trenta, per aumentare la produzione di minerale introdusse un nuovo tipo di lavoro denominato “Bedaux”, il famoso “cottimo”: il minatore che riusciva a fare una maggiore produzione riceveva un salario più alto. Tutti si ribellarono a questa imposizione, che terminò solo con la chiusura della miniera nei primi anni trenta. Gli operai si trovarono a casa senza uno stipendio per poter aiutare la famiglia e nel paese ricomparve, inevitabilmente, la miseria. La miniera riaprì per un breve periodo verso la fine degli anni trenta, poiché il minerale veniva utilizzato per scopi bellici. In seguito la miniera venne nuovamente chiusa, fino al dopo guerra. Alla riapertura, gli operai lavoravano saltuariamente e si dovevano recare al lavoro a piedi o con mezzi propri; il lavoro si effettuava con arnesi manuali come la picca, la pala e il martello pneumatico. Venivano utilizzate delle maschere per la protezione dalla polvere, che si depositava nei polmoni dei minatori causando la silicosi. In seguito, per cercare di alleviare questo problema, furono usati degli aspiratori e dei martelli pneumatici ad acqua; per chi tuttavia lavorava all’avanzamento, questo non era il solo rischio a cui andava incontro: spesso si doveva fare i conti con pericolose fughe di gas e di frane che si verificavano all’interno della galleria, dal momento che si lavorava fino a centoventi metri di profondità. In queste condizioni, è facile immaginare, gli aiuti potevano risultare inefficienti.
Negli anni sessanta, per portare i minatori a lavoro, venne istituito un servizio pullman; il primo autista fu Francesco Guerrini che poi fu sostituito da Desiderio Ricciarelli. L’orario di partenza era fissato per le 5,20 al mattino e le 13,20 al pomeriggio, dal momento che gli operai lavoravano in turni di otto ore per cinque giorni alla settimana.
I minatori percepivano una paga in base alle giornate effettuate, a cui andava aggiunto il “cottimo”, il sottosuolo e altre indennità varie. Per stabilire il pagamento del “cottimo”, all’avanzamento, venivano misurati i metri fatti dagli operai a cui, i vari caposervizio incaricati di queste misurazioni, tendevano sempre a toglierne qualcuno, scatenando inevitabilmente le ire e le proteste degli operai. All’avanzamento lavoravano due operai, che avevano il compito di liberare la galleria dal materiale franato per il brillamento delle mine del turno precedente. Quando la galleria era sgombra dai detriti veniva armato un nuovo tratto, togliendo la roccia pericolante e preparando nuovi fori per altre esplosioni. Solo se il caposervizio riteneva che il lavoro diventava insostenibile per due sole unità, veniva affiancato un terzo operaio. Il materiale arrivava al Morone sia dalla miniera del Ribasso che dalle Dainelli; da quest’ultima in particolare mediante una teleferica lunga ben novecento metri. Per caricare il cinabro sui vagoni, in un primo momento si usavano le pale, poi un macchinario innovativo per l’epoca. Il minerale veniva successivamente portato a cuocere nei forni, che prendevano il nome del loro coinventore, l’ingegner Spirek, ed erano denominati forni a cupola, all’interno dei quali il cinabro cuoceva a ottocentocinquanta gradi centigradi. Questa temperatura all’inizio veniva raggiunta bruciando la legna immessa in capienti focolari, in seguito si usarono dei bruciatori a nafta, che sostituivano gli uomini in quel faticosissimo lavoro. In fondo al forno, dove il calore era maggiore, il cinabro arrostito liberava mercurio allo stato di vapore, che grazie a degli aspiratori veniva convogliato in canali di condensazione continuamente refrigerati. Da qui, colava in vasche a chiusura idraulica, nelle quali si depositava misto a tutti i prodotti della combustione. Periodicamente veniva tolta una percentuale di metallo puro, che veniva introdotto in bombole del peso di 34,5 Kg.
Nel 1970 la crisi mercurifera colpì le miniere del Monte Amiata, causando una forte diminuzione del prezzo della bombola, mentre l’anno successivo ci fu un vero e proprio crollo. La Società Monte Amiata, conseguentemente, decise lo smaltimento della miniera del Morone. Immediata fu la reazione dei minatori, che occuparono la miniera per impedire la chiusura dei forni e nel contempo per respingere i tentativi di smobilitazione della stessa. Tutte le forze politiche del Comune entrarono con maggior vigore in azione, proponendo incontri chiarificatori con i responsabili della ditta Monte Amiata e con i rappresentanti del governo. Anche la popolazione di Selvena fece sentire la sua voce: le donne intervennero con energia protestando e picchettando il piazzale antistante la miniera. I selvignani si divisero in gruppi, effettuando dei turni di quattro-sei ore, per impedire l’accesso dei camion alla miniera e il trasporto del minerale dal Morone ad Abbadia. Per sopperire al freddo pungente del periodo (eravamo a novembre), le donne si preoccuparono di accendere dei falò e nello stesso tempo pensarono anche alla distribuzione del cibo ai minatori che erano rimasti all’interno della galleria.
La ditta, vista la resistenza degli operai e della popolazione, decise di far intervenire la polizia. Quando le forze dell’ordine arrivarono sul luogo, si resero conto che la protesta aveva un fine giustificato: la salvaguardia del posto di lavoro. La contestazione rimaneva rigida ma non sfociava in atti di violenza e la sera la polizia ritornò in caserma, lasciando il disbrigo della questione tra la ditta e gli operai. In quei giorni tra i rappresentanti sindacali e quelli societari si imbastirono febbrili contrattazioni, che inizialmente non sfociarono in alcun accordo. Uble Fontani e Goffredo Fontani, che difendevano gli interessi dei minatori, uscendo da una riunione esposero agli stessi le difficoltà a cui andavano incontro per risolvere la trattativa in modo favorevole. Per esprimere ancora più marcatamente il proprio desiderio di lotta i minatori mostrarono alla Monte Amiata un cartello su cui era scritto: “Qui si cava e qui si coce”. Gli incontri tra le due parti, proseguirono fino a quando la società decise di continuare ad estrarre il minerale, una piccola vittoria che coinvolse tutta la popolazione di Selvena. La crisi mercurifera, però, appariva inarrestabile e portò ancora ad altri incontri tra le forze politiche, i sindacati e le società che si alternavano nella gestione degli impianti minerari. L’attività produttiva della miniera del Morone avvicendava dei periodi in cui tutto sembrava risolversi in maniera positiva, ad altri decisamente più critici. Si arrivò così al 1976, anno in cui la ditta decise di usufruire della cassa integrazione viste le difficoltà di vendita del mercurio. Si effettuava un lavoro di turn-over che impegnava una trentina di operai per volta; il minerale estratto era portato ad Abbadia per la fase di cottura. Si arrivò così agli anni ottanta dove ci fu una piccola ripresa del settore e per circa un anno e mezzo venne aumentata la produzione interna, ma nel 1985 si verificò il crollo irreversibile del mercurio e la miniera del Morone chiuse la sua attività definitivamente. Fino agli anni novanta qualche operaio rimase per controllare i lavori di tamponamento della galleria, dei forni e di smaltimento della miniera. Con la chiusura del Morone scomparve un pezzo importante della storia e dell’attività lavorativa di Selvena. Oggi, quando si passa davanti all’ex miniera e si guardano i ruderi arrugginiti e quelle case con le porte e le finestre murate, ritornano alla mente gli anni in cui quel posto era affollato di operai, stanchi, sporchi, ma orgogliosi di quel duro lavoro e di quella vita da minatore. L’eventualità di creare un museo minerario nel sito del Morone viene vista dagli abitanti di Selvena come una rivincita per quegli operai, che per tanti anni avevano versato sudore nella miniera.
Le informazioni riportate in questa scheda sono state tratte dal libro Viaggio nei ricordi del nostro paese, Selvena dal 1900 ad oggi.
Nel link successivo, una descrizione con galleria fotografica, direttamente dal sito del Parcoamiata. Nel 2002 è stato costituito il “Parco Nazionale Museo delle Miniere dell’Amiata” che tra i suoi compiti, oltre alla messa in sicurezza, il recupero dei manufatti e la tutela ambientale dei siti minerari, ha quelli non meno significativo della conservazione degli archivi, della promozione degli studi della raccolta delle testimonianze e della valorizzazione ai fini turistici del territorio del Parco.

Il video seguente mostra una interessante raccolta di fotografie storiche del paese di Selvena. Qui le famiglie, la resistenza partigiana, la miniera e la vita quotidiana si intrecciano formando un unico legame.

Foto d’epoca

Le dure condizioni di lavoro

 

Foto di gruppo

 

Gli ultimi anni di attività

Di seguito un interessante documento che accompagnava gli splosivi dalla casamatta al luogo di utilizzo:

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Galleria fotografica (foto maggio 2011)


Riferimenti in rete

Ceramica Ligure Vaccari

Lo stabilimento nasce nel 1880 come fornace di laterizi, sfruttando la cava di Palanceda, nel comune di Santo Stefano Magra. La vera fabbrica fu fondata solo successivamente, con l’intervento di Stanizzi e Bonazzi. Il fallimento, purtroppo, avviene dopo poco.

La fornace a fine ‘800

Successivamente, siamo nel 1893, la società fu acquistata da Giovanni Ellena che nel 1900 fondò la Società Anonima Stabilimento Ceramiche Ellena. Tra i soci spicca il nome di Carlo Vaccari, che intuisce la potenzialità dell’azienda e dell’argilla locale.

Società Anonima Stabilimento Ceramico Ellena

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La fabbrica nel 1903

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Listino laterizi del 1914

Carlo Vaccari ne diventa il direttore e, a partire dal 1910, amministratore delegato. Nel 1920 la ragione sociale muta in Società Anonima Ceramiche Liguri. Sempre in questo anno, viene acquistata la società “La Fornace” di proprietà della famiglia Foltzer.

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Pubblicità delle mattonelle refrattarie

Nel 1921 entrano a far parte della società, con varie mansioni, i figli di Carlo Vaccari e la sede legale e amministrativa viene spostata a Genova. Durante gli anni trenta la fabbrica diventa la più importante produttrice di ceramiche in Italia. Nel 1938 la famiglia Foltzer abbandona la collaborazione e nel 1940 la ragione sociale si trasforma in Ceramiche Ligure Vaccari S.p.A.

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Copertina del catalogo del 1948

La fabbrica nel 1930

Zona refrattari nel 1932

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Operai nel 1932

Un inevitabile calo produttivo verrà riscontrato durante la seconda guerra mondiale, seguito da un boom economico nell’immediato dopoguerra.

La fabbrica nel 1950

Nel 1958 iniziano anche i primi scontri tra lavoratori e dirigenza, quando viene deciso lo spegnimento di un forno e il licenziamento dei 300 operai. Altri scioperi seguirono con la richiesta di adeguamenti salariali. Ulteriori problemi sorsero a causa dei villaggi operai, che non rispettavano le norme igieniche. Inoltre, l’intensificarsi dei ritmi produttivi aumentò i casi riscontrati di silicosi, che causò la morte di circa 90 lavoratori ogni anno. Lo stabilimento sarà modernizzato tra gli anni 1968/69, riportando a Ponzano gli uffici commerciali. Nel 1972 la crisi economica, unita alla scarsa capacità dirigenziale, porterà la fabbrica al fallimento. Tutti i lavoratori verranno posti in cassa integrazione, seguiranno occupazioni e un successivo intervento dello Stato (1973) per salvare lo stabilimento. La ragione sociale cambia in Eta Geri con l’occupazione di 500 operai. Nel 1974 Sicerligure subentra a Eta Geri: cambia ancora la ragione sociale in Sicerligure Vaccari S.p.A. Nel 1975 diventa Nuova Ceramica Ligure S.p.A. Nel 1976 Luciano Vaccari viene arrestato per bancarotta fraudolenta. Dal 1979 diventa azionista l’ing. Pozzoli e nel 1980 nasce la Ceramiche Vaccari S.p.A.

Locandini degli ultimi anni di produzione

Nel 1986 nasce una società collaterale, la Ceramica Ligure S.r.l. che nel 1993 rileva la Ceramica Ligure S.p.A. Nel 1997 diventa proprietà dei tedeschi Villorey e Boch e nel 2004 degli austriaci Lasselsberger. Questi ultimi, nel 2006, decidono il fermo delle attività produttive per gravi crisi economiche.

Nell’aprile del 2006 la fabbrica di Ponzano chiude definitivamente.

Questa azienda, partita come semplice fornace di laterizi, diventa negli anni famosa e rinomata per la produzione di ceramiche, apprezzate in tutto il mondo. A tale produzione si affianca anche quella di mosaici in gres porcellanato.

Proprio questo incremento della produzione rende necessaria la costruzione di un forno Hoffman, una centrale elettrica e molini per la macinazione delle argille. Si costruiscono i primi uffici e gli edifici per gli operai, che arrivano fino a 1300 unità. In seguito i forni Hoffman verranno sostituiti da quelli a tunnel, più economici e meno inquinanti.

Alcuni lavoratori all’interno del forno Hoffman

Il villaggio operaio è una delle caratteristiche che contraddistingue le più importanti aziende di inizio ‘900, nato per fornire alloggio alle maestranze venute da lontano. Il primo fu chiamato “Corte”, costruito insieme alla villa della famiglia Vaccari. Purtroppo negli anni trenta verrà distrutto, per far posto alla Chiesa e alla sua canonica.

Scolaresca nei primi del ‘900

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Maestranze di inizio ‘900

Negli anni quaranta vengono costruito nuovi edifici ed alloggi, nel viale Carlo Vaccari e altre in zona Corea negli anni cinquanta. Era presente anche uno spaccio aziendale, con zona per la lavorazione del pane, carni, frutta e merceria.

Ad opera dell’ing. Mazzocchini vengono costruite la casa dell’operaio e la palazzina della dirigenza. Nella prima si trovano spogliatoi, mensa e infermeria. La palazzina della dirigenza, ubicata all’ingresso principale dello stabilimento, ospita invece gli uffici amministrativi.

Altre foto storiche delle aree produttive:

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Macchinari

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Aree produttive

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Aree produttive

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Aree produttive

Oggi, tutta l’ex area aziendale è interessata dal “Progetto Nova”, iniziativa culturale atta a recuperare e valorizzare gli spazi ex Vaccari. Nel corso degli anni sono stati organizzati concerti, mostre e altre iniziative culturali, di cui riportiamo la presentazione:

“Dal primo giorno, dopo la chiusura della Vaccari, abbiamo scelto di non far cadere la fabbrica nell’oblio, quell’oblio che accompagna, troppo spesso in Italia, i siti industriali dismessi.
Abbiamo voluto tenere i riflettori accesi sul vecchio opificio, attraverso tante iniziative, malgrado la chiusura dello stabilimento fosse stata un duro colpo per la nostra comunità e con lo stesso coraggio, oggi, nonostante la difficile congiuntura storica ed economica, vogliamo seguire esperienze internazionali che hanno raggiunto il recupero e la rivitalizzazzione di simili spazi, proprio attraverso la cultura.Al di là delle facili critiche, pensiamo infatti che investire in cultura, peraltro in un luogo in cui il legame con chi lì vive è ancora forte, significhi investire sul futuro della nostra terra.
Nessuno pensa, tuttavia, che la Vaccari possa essere solo un contenitore culturale.
Pensiamo però che in una fase nella quale è necessaria una riprogrammazione urbanistica e la definizione di strategie che possano attrarre investimenti, mantenere l’attenzione sul vecchio opificio e provare a farlo vivere, anche con nuove funzioni come quelle culturali, rappresenti una modalità innovativa per tutelare e valorizzare una risorsa così rilevante.
In questo contesto nasce NOVA, Nuovo Opificio Vaccari per le Arti, un progetto che mira a traguardare non solo la realizzazione del polo dell’economia culturale, uno dei pochi settori in cresita secondo l’ultimo rapporto ISTAT, ma la riprogrammazione urbana di tutta l’area.Parecchie migliaia di metri quadrati, oggi in comodato gratuito al Comune, sono state assegnate attraverso bandi pubblici a chi ha presentato il suo progetto e si è impegnato a realizzarlo qui, aprendo la strada a un nuovo modo di fare cultura.
Ancora negli spazi in comodato, nell’edificio all’ingresso dell’ex compendio industriale, sono inserite nuove funzioni pubbliche, dalla biblioteca all’urban center, luogo di incontro e confronto sul futuro dell’area, fino al futuro avvio di una foresteria, una residenza creativa pensata come fondamentale supporto alle varie attività che qui si insedieranno.Il progetto per l’Archivio Vaccari, inoltre, si inserisce in questo schema.
L’impegno profuso in tale direzione in questi anni unitamente ad un finanziamento regionale di ben mezzo milione di euro, ha permesso di recuperare lo stabile ex Calibratura,  acquistato dal Comune.
Il recupero della memoria di quel luogo, che ha rappresentato un pezzo di storia del lavoro di questa regione, assume un significato ancora più profondo alla luce del progetto complessivo che abbiamo in mente per quegli spazi.
I lavoratori, i materiali, i prodotti tornano protagonisti raccontando la vita ultracentenaria di una fabbrica che è stata per decenni sinonimo di eccellenza italiana nel mondo, tanto importante da cambiar il volto di una parte del nostro Comune che tutt’oggi viene chiamata la “Ceramica”.
Il passato non verrà cancellato ma, anzi, rivivrà in quegli stessi luoghi che diverranno sede di creatività diffuse e, ancora, ci auguriamo, del lavoro di tante persone.
Parlare di Nova, però non significa fermarsi al presente o al passato.
Nova rappresenta la volontà, tutta proiettata nel futuro, di riprogrammare uno spazio di oltre 180.000 mq, una vera e propria città, “nascosta” nel tessuto urbano esistente.
Si è già fatto cenno all’urban center come luogo di incontro e dialogo della comunità ma, chiaramente, non può solo un luogo fisico assolvere alle esigenze, prima di tutto progettuali, di una sfida di tali proporzioni.
Nova apre una nuova frontiera.
Un nuovo modo di fare cultura, una nuova sinergia tra Istituzione, associazioni e cittadini, una nuova strada per disegnare, insieme, il futuro della Vaccari.”

Molte delle notizie riportate sopra sono state estratte dal libro “Ceramiche Ligure vaccari” di Alice Cutullè. Al suo interno viene trattata anche la relazione tra le ceramiche Vaccari e il mondo dell’arte futurista.

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Riferimenti in rete

Dinamitificio Nobel di Carmignano

Alle porte di Firenze, nel comune di Signa, immersi in un folto bosco, riposano i resti di una delle più importanti fabbriche di esplosivi del novecento. Tra queste verdi colline nessuno potrebbe immaginare la quantità di edifici che, nascosti dal verde, costituivano la grande fabbrica di esplosivi. La sua storia ha avuto un ruolo fondamentale per Signa e dintorni, arrivando a contare circa 4.000 lavoratori.

Di seguito, le tappe fondamentali di questa storia, ricavate dal sito della proloco Signa:

Signa ha ospitato per buona metà del Novecento una fabbrica di dinamite che ha ricoperto un ruolo centrale nell’approvvigionamento dell’Esercito Italiano durante le due guerre mondiali.

In Italia era già presente una fabbrica di dinamite ad Avigliana di proprietà delle società di Alfred Nobel, ma presentava alcuni problemi: era troppo vicina ai confini nemici, aveva vecchi macchinari ed era stata vittima di alcuni gravi esplosioni. Per questo fu deciso di costruire una nuova fabbrica in un sito che avesse migliori caratteristiche. L’ubicazione scelta era posta alla confluenza dell’Ombrone nell’Arno, nei pressi del confine con Carmignano sulla strada per Comeana. Proprio per la vicinanza con Carmignano, la sua stazione e la sua comunità che la fabbrica prenderà il nome di impianto di Carmignano anche se si trovava nel territorio di Signa.

I motivi della scelta erano molti: una relativa vicinanza delle cave di pirite della Maremma e della Val di Cecina, la lontananza dalle coste marittime, in una posizione centrale rispetto allo Stato, il facile collegamento col porto di Livorno tramite ferrovia (vicinanza con la stazione di Carmignano), le caratteristiche del luogo, isolato e circondato in buona parte dall’Ombrone che in quel punto forma un’ansa.

Il terreno, facente parte della tenuta agricola di San Momeo nella zona detta Il Pitto, fu acquistato nel 1912 e un anno più tardi iniziarono i lavori che furono imponenti: fu spostata la strada provinciale tra Signa e Comeana che transitava proprio dentro l’area prescelta per la fabbrica; fu di conseguenza costruito un nuovo ponte; venne impiantato il bosco in porzioni della collina che invece erano coltivate a vigna al fine di rendere l’impianto difficilmente individuabile dalle aviazioni militari che cominciavano a svilupparsi; furono costruiti solidissimi edifici, tracciate strade, viali e piazze, e scavate gallerie.

La produzione aveva caratteristiche esclusivamente belliche. Durante la Prima guerra mondiale, lo stabilimento produsse principalmente esplosivi per le munizioni da cannone di grosso calibro: balistite e dinamite.

Dopo la Grande Guerra la fabbrica perse d’interesse per la proprietà e fu venduta nel 1925 alla Montecatini che dieci anni più tardi acquisì anche la Società Generale Esplosivi e Munizioni con la nascita della ditta Nobel-SGEM. La Montecatini in periodo di pace utilizzò lo stabilimento anche per sperimentazioni agricole (in un’area scoperta dal bosco in riva all’Ombrone ed anche in serra) e produzioni chimiche sperimentali.

Negli anni precedenti la seconda guerra mondiale, invece, la fabbrica ebbe nuovamente un ruolo militare importante; riprese la produzione di esplosivi (sempre a base di nitroglicerina) e furono costruiti molti nuovi edifici e persino un trenino con piccoli vagoni che trasportava il materiale tra i vari padiglioni e poi a valle fino alla ferrovia e di cui restano alcuni tratti delle rotaie che nell’ultimo tratto risultano collocati su tralicci di cemento armato, anch’essi aggrediti dalla vegetazione, come tante altre strutture edilizie.

Nel 1944 cadde in mano ai tedeschi che iniziarono a sfruttarla; da quel momento divenne oggetto di sabotaggi da parte dei partigiani: il più clamoroso avvenne l’11 giugno e  questo è il racconto:

All’1.10 della notte dell’11 giugno 1944 la polveriera salta in aria, per l’esplosione di 8 convogli pieni di tritolo fermi alla stazione.“Non è un incidente, come la gente pensa sul momento. No, è il risultato del sabotaggio della Squadra d’Azione Patriottica, guidata da Bogardo Buricchi. Con lui, il fratello Alighiero, Bruno Spinelli , Ariodante Naldi, Lido Sardi, Mario Banci, Enzo Faraoni e Ruffo Del Guerra.
Bogardo Buricchi è nato a Carmignano. Ha 24 anni. E’ definito maestro e poeta, spirito libero, odia le ingiustizie. E’ il capo indiscusso. Suo fratello Alighiero ha appena 19 anni. Lino Sardi, abitante alla Serra, ha sempre vissuto con la famiglia Buricchi. Bruno Spinelli è il più anziano del gruppo. Ha 43 anni. E’ un ex operaio della Nobel. E’ alla sua prima azione. Mario Banci ha 22 anni. E’ nato a Genova da genitori di Carmignano. E’ entrato nella Resistenza nel dicembre del 1943, da quando è sfollato a Montalbiolo. Ariodante Naldi, 21 anni, è studente a Firenze. Ruffo Del Guerra ha 21 anni. Abita a Poggio alla Malva, dove ha conosciuto Bogardo Buricchi, il quale va a trovare il parroco frequentemente. E’ di famiglia antifascista. Suo padre è stato ridotto in fin di vita dagli squadristi.Hanno deciso di fare un’azione importante prendendo di mira i vagoni della polverificio Nobel alla stazione ferroviaria. Sono stati informati che sono carichi di tritolo. E’ sabato. Pioviggina. Si trovano davanti al bar di Poggio alla Malva. Da lì si trasferiscono alla cipresseta della Cavaccia. Bogardo Buricchi stabilisce di non procedere insieme, ma che devono andare tre da una parte e tre dall’altra, mentre lui e Naldi vanno a diritto. Sanno che i vagoni sono otto, a circa quattrocento metri dalla stazione, su un binario isolato. Sanno anche che ci sono sentinelle, che devono essere eliminate. Ma non le vedono. Non c’è nessuno. I vagoni ci sono invece. Bogardo dà il via libera. I tedeschi sono altrove. Partecipano a una festa e sono tutt’altro che lucidi.
L’operazione è semplice, dice Bogardo. In pratica c’è da accendere una miccia. Ma hanno anche una bomba a tempo. Non si sa mai. Bogardo e Ariodante entrano in un vagone. Alighiero rimane a terra. A Bruno Spinelli è stata affidata una cassa di quaranta chili di tritolo. Lui e Mario Banci devono andare alla Cavaccia per metterla al sicuro. Può servire per altre azioni. Ruffo Del Guerra fa da palo nel cipresseto. E’ lui a scorgere la lampada di Bogardo. E’ lui a vedere Bogardo e Ariodante buttarsi giù dal vagone. E un secondo dopo il bagliore accecante, l’esplosione tremenda. Cosa non ha funzionato?Enzo Faraoni e Lido Sardi hanno fatto in tempo a spostarsi. E’ scoppiato un vagone. In successione, scoppiano gli altri, si dice per simpatia. Bogardo, suo fratello Alighiero e Ariodante vengono scaraventati contro le rocce. Disintegrati, Bogardo e Ariodante. Di loro saranno trovati brandelli e la tessera ferroviaria di Ariodante. Alighiero ha pochi attimi di vita. Faraoni e Sardi finiscono lungo distesi, feriti in modo non grave. Del Guerra sviene colpito forse da un tronco. Ne ha visti volare parecchi – impietrito – neanche fosserofuscelli. Bruno Spinelli, alla Cavaccia, è investito dall’onda d’urto che fa esplodere la cassa che trasporta. Fa un volo di molti metri e va a battere la testa contro un masso. Muore poco dopo.Mario Banci è ferito, ma ce la fa a muoversi.Non si sa quanti siano le vittime tra i tedeschi. Vero è che tutti gli edifici sono stati investiti. A chi è andata bene, ha avuto il tetto scoperchiato. L’esplosione è stata sentita a Prato e a Firenze. Il che ci fa capire la potenza. Che si valuta anche dalle dimensioni del cratere provocato. Sono tali da aver messo fuori uso un bel tratto di rotaie, impedendo il passaggio dei treni per giorni e giorni.E’ l’azione più importante dei partigiani fiorentini. Il prezzo pagato, però, è salato. Vi ha perso la vita gente in gamba. Bogardo Buricchi, nonostante la giovane età, ha sempre mostrato grande maturità, coraggio. A febbraio ha organizzato lo sciopero dei contadini di Carmignano contro l’ammasso supplementare del grano (15 chilogrammi per ogni componente delle famiglie). E il 2 marzo si è reso protagonista dell’incendio dell’ufficio comunale dove erano i documenti sui raccolti. Ha beffato anche la Banda Carità, arrivata a Carmignano per mettere ordine.Una formazione di partigiani pratesi prende immediatamente il nome di Bogardo Buricchi: è quella che partecipa alla liberazione della città laniera.A tutti e quattro, il 12 giugno 1966, i popoli di Carmignano e Prato dedicano un cippo a Poggio alla Malva. E’ intitolato “E ora impara te”.

Dopo la fine della guerra le commesse statali cessarono ed iniziò il periodo di crisi che sfociò in licenziamenti di massa. Un ultimo tentativo di salvare la fabbrica fu quello di convertire la fabbrica alla produzione di fitosanitari e pesticidi. Ma ormai era destinata alla chiusura che avvenne nel 1958. Dopo che nel 1964 lo stabilimento è stato bonificato dai residui degli esplosivi e dei materiali utilizzati per la loro fabbricazione, l’area su cui sorgevano gli impianti giace inutilizzata ed è passata in mano privata.

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Il volume redatto dal Comune di Signa che tratta le azioni di gruppi partigiani della zona nel 1944

 

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Alcune pagine che trattano dell’occupazione tedesca dello stabilimento

 

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Qui, invece, descritte le azioni di sabotaggio dentro e fuori lo stabilimento. Nella foto una veduta della Nobel

 

Numerosi sono stati i progetti per riqualificare l’area, dal polo universitario a studi cinematografici. Ad oggi, niente è cambiato.

L’area è frequentata dai gestori del bosco; grazie a loro, le palazzine più vicine all’entrata sono ancora in buono stato; molte delle altre strutture, più lontane dal viale principale, sono ormai fagocitate dalla vegetazione.


Galleria di foto storiche degli impianti (da Frammenti di Memoria)

 

Nella foto sotto, scattata nel 2008, fa bella mostra di se la palazzina dei laboratori. L’edificio meglio conservato sia esternamente che internamente. Al suo interno sono ancora visibili i resti di banchi da lavoro e cappe laminari.  Ad oggi (2016) la struttura esterna è praticamente invariata.

 


Galleria fotografica


Riferimenti in rete

Zuccherificio di Avezzano

Nel 1897 una società italo-tedesca costruì uno zuccherificio a Monterotondo (RM) con il progetto di utilizzare le bietole che sarebbero state coltivate nei terreni della piana del Tevere, di proprietà del principe Boncompagni.

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Lo zuccherificio di Monterotondo

Nonstante la società offrisse anche degli incentivi anticipati ai coloni per promuovere la coltivazione delle bietole, pochi di loro aderirono alla proposta e lo zuccherificio si trovò in grande difficoltà per carenza di materia prima.

Fu così che si iniziò a cercare altre fonti di approvvigionamento e si arrivò ad acquistare le bietole coltivate nella piana del Fucino, Continua a leggere

Le torri dell’EUR

Il quartiere dell’EUR, a sud di Roma, venne pensato, progettato e realizzato come sede dell’Esposizione Universale del 1942, da cui l’acronimo. Realizzato negli anni 30 del secolo scorso, non fu mai terminato a causa dello scoppio della seconda guerra mondiale.

Al termine della guerra ci si ritrovò, quindi, con una monumentale opera incompiuta e le Olimpiadi del 1960 furono l’occasione per rimettere mano a quest’area. Il commissario straordinario dell’Ente EUR, Virgilio Testa, portando avanti un progetto di decentramento amministrativo della capitale, incarica un pool di architetti della costruzione della nuova sede del Ministero delle Finanze su un’area di oltre 15.000 mq. Gli architetti scelti saranno Cesare Ligini, Vittorio Cafiero, Guido Marinucci e Renato Venturi.

E’ prevalentemente Cesare Ligini ad occuparsi della progettazione della nuova sede, pensando tre alte torri affiancate da altre due costruzioni più basse. Quattro edifici comunicano tra loro con una struttura di raccordo al primo piano.

Le due costruzioni più basse ospitano, rispettivamente, la sede del Ministro con gli uffici di rappresentanza e la sede del Comando Generale della Guardia di Finanza. Le tre alte torri, invece, sono adibite ad uffici ed archivio.

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Il complesso delle torri in una cartolina d’epoca

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Il complesso delle torri in un fotogramma del film Il boom di Vittorio De Sica (1963)

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L’interno del complesso in un fotogramma del film Boccaccio ’70 (1962)

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Ancora da Boccaccio ’70 (1962) una panoramica dell’EUR presa dal Palazzo dello Sport. A destra il complesso delle torri

A seguito dello spostamento degli uffici del Ministero le torri sono rimaste in stato di abbandono sino al 2007 quando, per evitare probabilmente il sopraggiungere di vincoli storici che ne avrebbero bloccato qualsiasi trasformazione, furono interamente spogliate lasciando soltanto la struttura in cemento armato. Accanto ad esse stava sorgendo la cosiddetta Nuvola di Fuksas e una cordata di imprenditori, tra cui Fintecna e Ligresti, ottenne l’autorizzazione per finire l’abbattimento degli scheletri e costruire un maxi-condominio di lusso progettato dall’architetto Renzo Piano.

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Il complesso delle torri come appare nel 2015 nelle immagini aeree di Google maps

Le torri stavano quindi per subire lo stesso destino di un’altra importante realizzazione di Ligini all’EUR, il Velodromo Olimpico, che venne abbattuto nel 2008.

La successiva crisi immobiliare spinse gli investitori privati a ritirarsi e per anni le torri sono rimaste scheletri di cemento abbandonati a se stessi, a un passo dal grattacielo dell’ENI e dal Palazzo dello Sport, progettato da Pierluigi Nervi.

A fine 2015 iniziano i lavori di ristrutturazione per realizzare il nuovo quartier generale della Tim all’interno delle torri, ma a metà 2016 il Comune di Roma revoca i permessi e Tim si ritira riportando l’area al completo abbandono.

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La ristrutturazione in corso nel 2016: il cantiere Telecom Italia


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Lanificio di Soci

Soci è una frazione del comune di Bibbiena attraversata da un’arteria statale, la SR71. Passata la piazza della chiesa vecchia, in direzione Camaldoli, incrociamo via del Lanificio e via del Tessitore. Questi nomi, insieme ad alcuni edifici, sono ciò che resta di una grosso complesso industriale; come altri nella zona, si occupava della lavorazione della lana. Deve la sua nascita al Berignale che attraversa il paese; un canale che sin da tempi antichi, forniva energia alle gualchiere per la sodatura della lana.

La nascita del lanificio fu opera di un cittadino di Soci, Giuseppe Bocci, che nei primi dell’ottocento iniziò questa attività sino alla creazione di un grosso polo industriale. Per rendere moderno il suo lanificio, Giuseppe mandò suo figlio Sisto a lavorare in Belgio. Qui, all’epoca, erano all’avanguardia nella lavorazione dei tessuti. Sisto tornò in Italia con esperienza e macchinari moderni. Tutto questo, portò alla fine dell’ottocento, alla creazione di un complesso con circa 500 dipendenti e alla produzione di rinomati manufatti, come il famoso tessuto del casentino.

Sisto Bocci, muore nel 1915, lasciando tutto in eredità ad un nipote, Adriano, che morirà al fronte durante il primo conflitto mondiale. La famiglia Bocci, decide di vendere il lanificio ad un industraile di Brescia, Giovan Battista Bianchi. Questi, modernizza la fabbrica, ampliandone la metratura. Purtroppo, la crisi finanziaria del 1929, trascina le aziende Bianchi e con esse il lanifico, verso il fallimento. I curatori del tribunale di Milano, si accorgono del buono stato di salute dell’azienda, tanto che uno di essi, Virgilio Maranghi, ne diventa propietario. Il lanificio riesce a fatica ad attraversare la seconda guerra mondiale sino ad un inevitabile fallimento del 1956.

L’attività passa così all’industriale pratese Brachi per poi fallire definitivamente nel 1970.

Sono gli stessi operai e tecnici a costituirsi cooperativa per poter continuare l’attività. Dal 1972 la Cooperativa Tessile di Soci (questo è il nome della nuova Azienda) produce stoffe conto terzi, con reparti di filatura, cordato, filatura pettine, tintoria in fiocco, tintoria in pezze, finissaggio.

Il signor Marchesini entra alla presidenza; acquistando immobili e macchinari e lanciando il marchio “Lanificio del Casentino”. Un accordo con il Comune di Bibbiena porta alla vendita di gran parte degli edifici storici che saranno trasformati in zone commerciali e abitazioni. La parte ancora produttiva viene ampliata. Tutto questo con il contributo della Comunità Europea.

Dopo un periodo di grossa produttività, tutto si arresta con la crisi del settore tessile, sino al nuovo fallimento del 2005. Ancora una volta la situazione vine presa in mano dagli operai che costituiscono una nuova cooperativa.

Ad oggi (2015) anche questa parte di attività è cessata. Soci non ha più la sua fabbrica tessile.

Proseguono invece le vicende processuali, come riporta questo articolo della rivista “Casentino 2000” datato 17 ott 2012:

“Un buco di bilancio nato da una operazione con una società della Mongolia che serviva a risparmiare milioni di iva non versata allo stato. Da questo alla bancarotta il passo è stato breve ed ha portato l’amministratore del Lanificio di Soci Simonello Marchesini in tribunale. Durante l’udienza il pubblico ministero ha chiesto per lui la condanna a 4 anni e mezzo di reclusione. Secondo la procura aretina sarebbero state evase notevoli cifre: 4 milioni di iva, e altri 14 milioni di tributi vari. Secondo le ricostruzioni sarebbe stata messa in piedi una triangolazione con la Mongolia con una fittizia esportazione di capi dal Lanificio che in realtà non venivano mai spediti. A partire erano solamente i documenti contabili, le bolle di spedizione, mai accompagnate dall’abbigliamento. In tribunale la corte presieduta dal giudice Bilancetti è però chiamata giudicare solo la bancarotta, non compaiono infatti i reati fiscali scaturiti dalle spericolate operazioni.”

Del grosso complesso industriale di inizio ‘900, rimangono alcuni edifici ristrutturati.

Una parte, ancora originale, versa in totale stato di abbandono. Sino al 2012 era ancora possibile trovare al suo interno i vecchi macchinari tessili. Oggi, questi sono stati tutti rimossi, alcuni destinati ad essere restaurati. L’edificio ha subito ingenti danni con crolli, causati dalla neve e altre intemperie. Attività di bonifica erano in corso nell’agosto del 2015.

Resta, invece, ancora immutata, la parte interessata dall’ultimo fallimento.

Parte della storia è anche presente nel volume “L’arte della lana in casentino-Storia dei lanifici” scritto da Pier Luigi della Bordella.

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Di seguito, alcune vecchie cartoline del paese di Soci:

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Sullo sfondo le ciminiere del vecchio stabilimento

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Come si presentava l’intera area industriale ad inizio del ‘900

 


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Di seguito alcuni scatti della parte vecchia, risalenti all’agosto del 2012. Ad oggi, 2016, l’area è stata svuotata ed è in corso la bonifica


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SAVA Marghera

La società SAVA (Società Alluminio Veneto Anonima) venne costituita Il 7 dicembre 1926 dalla svizzera AIAG, la futura Alusuisse, in associazione con alcuni industriali italiani dell’energia elettrica, rappresentati da Marco Barnabò, e si divise la produzione di alluminio e allumina in duopolio con l’italiana Montecatini.

Nel 1928 venne costruito il primo impianto SAVA di Marghera sfruttando le esenzioni fiscali, la logistica del porto e la vicinanza agli impianti idroelettrici, fondamentali per garantire la grande quantità di energia richiesta dai processi di elettrolisi e fusione. Nell’immediato dopoguerra l’acronimo SAVA resta invariato ma il nome della società muta in Società Alluminio Veneto per azioni.

Lo stabilimento SAVA di Marghera Fusina, di cui ci occupiamo qui, venne costruito tra il 1962 e il 1964.

E’ del 1973 l’acquisizione della SAVA da parte dall’EFIM e del 1988 il cambio di ragione sociale in Alumix, caposettore della produzione di alluminio nel gruppo EFIM.

Nell’era EFIM le attività legate all’alluminio furono sostenute anche con i capitali della Società mineraria carbonifera sarda (Carbosarda), acquisita dall’EFIM nel 1964 e già attiva nel settore dell’alluminio con gli impianti di Portoscuso e Iglesias, in Sardegna.

Nel corso degli anni le perdite economiche (comunque coperte dallo Stato, visto che EFIM era una finanziaria del sistema delle partecipazioni statali) si fecero sempre più importanti portando alla graduale dismissione dell’impianto sino alla chiusura avvenuta nel 1991. La chiusura fu accompagnata da forti dimostrazioni degli operai, come ci testimoniano alcuni articoli di giornale dell’epoca.

Nel 2013 l’area, a seguito esproprio a fini di utilità pubblica, viene bonificata con la completa demolizione delle strutture, e riutilizzata come terminal navale.

L'area SAVA prima e dopo la riqualificazione del 2013

L’area SAVA prima e dopo la riqualificazione del 2013

L’impianto SAVA di Marghera Fusina era composto da cinque parti principali:

  • Il capannone dei forni per l’elettrolisi lungo 450 metri
  • La fonderia
  • Il silos di stoccaggio dell’allumina
  • La centrale elettrica
  • I serbatoi dell’olio combustibile per alimentare la centrale elettrica
SAVA Fusina planimetria

Planimetria della SAVA di Marghera Fusina

Capannone forni elettrolisi

La parte più affascinante dell’intero impianto era senz’altro il capannone forni, una struttura imponente in cemento armato lunga oltre 450 metri.  Nella relazione geotecnica redatta durante la fase progettuale tale edificio è così qualificato:

Il capannone forni per l’elettrolisi è di 450 m di lunghezza, di 23 metri di larghezza e di 22,50 m di altezza. […] La parte inferiore del capannone è formata da elementi di cemento armato costituenti la struttura di sostegno dei forni e della carpenteria metallica formante la parte superiore del capannone. […] La struttura trasmette dei carichi variabili tra 175 e 340 ton a piastroni posti a distanza di 9,75 m da asse ad asse.

La fonderia

L’edificio della fonderia era così composto:

La fonderia è costituita da un fabbricato dalle dimensioni di 108 m di lunghezza e 54 m di larghezza. […] Sempre in questo edificio la formazione di due forni per le macchine a colata continua ha costituito un problema di una certa delicatezza. I due forni di 17 m e di 12 m di profondità e di 2,2 m di diametro sono stati formati per sottoscavo all’interno di tubi prefabbricati a elementi sovrapponibili.

Silos allumina

Per quanto riguarda invece il silos dell’allumina, che alimenta i forni, queste le caratteristiche:

Il silo per allumina della portata di 6000 ton è a forma circolare di 23,20 m di diametro e di circa 35 m di altezza. La cella contenente l’allumina interessa però la parte alta del silo per un’altezza di circa 25 m compresa la cupola e la camera di caricamento. […] Il silo è entrato in esercizio nel dicembre 1963 contenendo mediamente  durante il periodo rilevato un carico di 3000 ton di allumina.

Centrale termoelettrica

I processi di produzione elettrolitici necessitano di una enorme quantità di corrente (non a caso la SAVA venne fondata in consocietà con importanti imprenditori dell’industria idroelettrica italiana). Per far fronte ai picchi di consumo e per compensare cali di fornitura esterna l’impianto venne dotato di una centrale termoelettrica alimentata a olio combustibile.

Il cassone principale comprende il turbogruppo, la sala quadri ed altre apparecchiature è lungo 58,15 m e largo 47,10 m. L’altro cassone di supporto della caldaia è lungo 26,48 m e largo 17 m. […] Un’altra opera di una certa entità facente parte della centrale termica è il camino. Alto 60 m è a forma di tronco di cono con diametro di base di 5,3 m e diametro di sommità di 2,90 m.

Serbatoi olio combustibile

La centrale termoelettrica era alimentata a olio combustibile immagazzinato in tre serbatoi circolari. I due principali avevano capacità di 10.000 m³ e misuravano 35,6 m di diametro e 11 m di altezza. Il terzo, da 500 m³, aveva un diametro di 8 m.


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LunEur

Luneur

C’era una volta, a Roma, il parco divertimenti più antico d’Italia la cui costruzione risale al lontano 1953. Il nome deriva dal quartiere, EUR (Esposizione Universale Romana, splendido esempio di architettura razionalista), dove il parco risiede. Le attrazioni, completamente meccaniche, cessarono l’attività nel 2008 su disposizione della prefettura di Roma per garantire la messa in sicurezza di tutta la zona. Il parco ha una estensione di circa 68.000 metri quadri, dei quali più di 50.000 sono destinati alle attrazioni che, stando agli attuali progetti e lavori di ristrutturazione (ad opera della Cinecittà Entertainment s.p.a.), dovrebbero essere destinate a bambini dai 0 ai 12 anni. Chi ha avuto la fortuna di entrare al LunEur nel periodo migliore della sua lunga storia, ovvero a cavallo degli anni ’70 e ’80, non può non ricordarlo come un po’ pacchiano e – a suo modo – decadente già allora. Purtroppo il parco non ha mai saputo rinnovarsi: solo nel 2007 vengono aggiunte alcune nuove attrazioni e si introduce un biglietto unico di ingresso, nel duplice tentativo di aumentare gli incassi e tenere lontani personaggi “indesiderabili”. Tuttavia, anche in considerazione del fatto che alcune attrazioni più “appetibili” richiedevano un supplemento, gli esercenti iniziarono ad avere diverbi sulla ripartizione degli incassi e, dopo solo un anno da questo tentativo di miglioramento, il parco chiude i battenti. Si spengono le luci e la musica, lasciando un vuoto che difficilmente verrà colmato con la nuova riapertura.

Il video seguente, girato in Super8, ci mostra come era il parco negli anni ’70:

Inoltre, curiosamente, una delle migliori attrazioni del parco, il Looping Star (montagne russe), di cui è visibile una foto (fonte www.italiaparchi.it), è stata ricollocata – mentre il LunEur era ancora in funzione – in un altro parco divertimenti di Roma, ZooMarine.

Dal momento della chiusura fino al 2012, quando sono iniziati i lavori di ristrutturazione che dovrebbero terminare nella primavera del 2016 (vedi articolo), il parco è restato chiuso ed in stato di totale abbandono.


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Pantalonificio Lebole

Lebole, foto storica

Rassina è una piccola frazione nel comune di Castel Focognano, in provincia di Arezzo. Il paese è attraversato da un’arteria statale, la SR71. Percorrendo questa strada e passando dalla piazza principale, possiamo notare quel che resta di una storica fabbrica: il pantalonificio Lebole. Come capirete di seguito, oltre a rappresentare un nome storico dell’abbigliamento Made in Italy, è stata un simbolo dell’emancipazione femminile nell’area casentinese. Qui lavoravano circa 600 persone, quasi tutte donne. Moltissime ragazze, giovani o madri di famiglia, trovarono nella Lebole di Rassina e di Arezzo l’opportunità di allontanarsi da una vita rurale e di sottomissione. Ben presto questo sogno si trasformò in un incubo; i ritmi insostenibili della fabbrica, i soprusi dei superiori, il doversi dividere tra lavoro e doveri casalinghi. Nacquero così i primi moti di sciopero a cui parteciparono le classi femminili; insomma, un’azienda con tanta storia da raccontare. Partiamo dall’inizio.

Dopo aver chiesto notizie al Comune di Castel Focognano, ho ricevuto una loro gentile risposta con il documento sotto riportato:

analisi storica area ex Lebole-Moda

In queste pagine non sono riportati gli ultimi atti di questo triste declino: il gruppo Lebole si trasforma poi in conpartecipazione statale diventando parte del gruppo Eni. Le difficoltà dovute alla crisi del settore e una gestione scellerata da parte di un ente che aveva solo il compito di inglobare aziende sull’orlo del fallimento; portarono all’indispensabile vendita a privati. Vince l’asta il colosso dell’abbigliamento Marzotto. Un susseguirsi di ridimensionamenti, a tutti i livelli, hanno portato alla chiusura definitiva dello stabilimento di Rassina nel luglio 1998.
Nel 2010 faceva bella mostra di se, sulla facciata principale, un cartello che dichiarava l’imminente realizzazione di appartamenti. I lavori sono iniziati nel 2012, portando alla demolizione di gran parte degli edifici per poi arrestarsi, causa la mancanza di fondi. La situazione rimane immutata fino alla fine del 2015.

Di seguito, un video tratto dalla trasmissione “Sportello Reclami”. Un consigliere del comune, spiega e mostra l’attuale stato di ciò che rimane della ex Lebole:

Una bella testimonianza di quanto abbiamo raccontato finora è rappresentata dal libro “La confezione di un sogno”, “La storia delle donne della Lebole” di Claudio Repek. Quarantasei testimonianze raccolte tra operaie, impiegati, dirigenti d’azienda e del sindacato che furono impiegati alla Lebole.

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Di seguito una pagina del libro che ci fa chiaramente capire le dure condizioni di lavoro nello stabilimento di Rassina:

Per concludere la storia di questo importante stabilimento, nel sito della Confederazione Associazioni Italiane Parkinson e Parkinsonismi (ONLUS), si legge quanto segue:

“Cinque ex dipendenti dello stabilimento Lebole di Rassina (AR) sono malate di Parkinson e i loro casi sono allo studio di un pool di medici. Si sospetta che possa esservi un collegamento con certi tessuti con coloranti, polveri e sostanze nocive con i quali sono venute a contatto in fabbrica.

Una richiesta per il riconoscimento della malattia professionale è stata inoltrata all’Inps, ma l’ente ha risposto chiedendo un riscontro scientifico. L’iter è ancora in una fase preliminare e si dovrà stabilire se si tratta di una coincidenza o se esiste davvero un nesso di causa ed effetto.

Intanto una delle malate di Parkinson, che ha 65 anni, lancia un appello alle ex colleghe, anche a quelle che hanno lavorato ad Arezzo, affinché segnalino, se esistono, casi analoghi. Un medico legale di Siena visiterà gratuitamente le ex “leboline”. A seguire la questione dalla parte delle ex lavoratrici è il patronato Acli. “


 
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Lanificio di Stia

Lanificio Stia

Nonostante un clima generale di miseria e arretratezza economica, a partire dal 1738 a Stia la manifattura della lana conobbe un improvviso sviluppo, grazie al motu proprio di Francesco III di Lorena che liberalizzava la produzione e il commercio dei panni lana su tutto il territorio toscano, per secoli monopolizzati dall’Arte della lana fiorentina.
Nel giro di qualche decennio, l’esercizio dell’arte della lana cominciò ad innovarsi, trasformandosi da artigianale a più moderna attività imprenditoriale, per merito in particolare della famiglia Ricci, che acquisì e riorganizzò vari opifici preesistenti tra loro vicini, e dei fratelli Beni.
Intorno al 1830 Marco Ricci avviò la meccanizzazione di alcune fasi produttive, come avveniva già da diversi decenni nei paesi europei più evoluti.
La fabbrica Ricci e la fabbrica Beni di Stia, oltre alla Mazzoni di Prato, furono i primi lanifici toscani ad introdurre le macchine, importate dall’estero. Questo valse loro la visita del granduca Leopoldo II nel 1838, mentre la qualità dei loro prodotti fece meritare una medaglia d’oro alla Esposizione d’arti e manifatture toscane di Firenze del 1839, cui fece seguito, per la società Ricci, un’altra medaglia d’oro nel 1844 e l’assegnazione della fornitura dei panni militari per l’esercito toscano.
Nel 1852, dopo una grave crisi economica che portò alla chiusura del lanificio Beni, Marco Ricci costituì con altri soci la Società di Lanificio di Stia.
Nei primi anni 60, grazie all’apporto di capitale da parte di altri soci, il lanificio di Stia occupava circa 140 operai. Le lavorazioni avvenivano in edifici vicini ma staccati. Sette ruote idrauliche dislocate in punti diversi muovevano i macchinari posti nei diversi stabilimenti.
All’Esposizione Nazionale Italiana di Firenze del 1861, la prima dell’Italia unita, il Lanificio di Stia ebbe l’importante riconoscimento della medaglia d’oro per i panni militari.
Tra il 1862 e il 1888, sotto la direzione di Adamo Ricci, fu completata la meccanizzazione di tutto il processo produttivo e razionalizzato il complesso degli stabilimenti.
Un risultato prestigioso fu l’invito a partecipare all’Esposizione universale di Parigi nel 1867.

Con i figli di Adamo il lanificio fallì e cessò la conduzione, durata più di un secolo, della famiglia Ricci. L’attività venne rilevata nel 1894 da una società costituita dai principali creditori, il cui pacchetto di maggioranza divenne negli anni successivi di proprietà della famiglia Lombard.

A dirigere il lanificio fu chiamato il veneto Giovanni Sartori, che aveva avuto come “maestro” il fondatore della Lanerossi di Schio, Alessandro Rossi.
Egli riammodernò la fabbrica, portandola ai livelli dei più importanti lanifici italiani.
Fece realizzare un condotto, scavato nella collina, per portare l’acqua dalla vecchia Tintoria e azionare due turbine idrauliche che generavano energia elettrica per il funzionamento di tutto il lanificio.
Sotto la sua direzione il complesso edilizio del lanificio raggiunse la configurazione attuale.
Giovanni Sartori morì prematuramente nel 1918, quando il lanificio era all’apice del suo prestigio: fornitore ufficiale di Casa Savoia e al più alto livello di occupazione, con 500 operai, circa 136 telai e una produzione di oltre 700.000 metri di stoffa.

Nel periodo fra le due guerre il lanificio di Stia resse la concorrenza, ma, dopo l’ultima guerra, entrò in una crisi irreversibile: nel 1962 venne venduto da Luigi Lombard all’industriale pratese Morelli, nel 1978 Morelli ne cedette la gestione alla Società Ci.Mo. Export che, nel 1985, fallì.
Nonostante i tentativi di ripresa, tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta, il lanificio non riuscì a ripartire con l’attività e venne definitivamente chiuso nel 2000.


Galleria foto storiche

Gran parte del lanificio è stato ristrutturato e destinato ad ospitare un museo permanente sul panno casentinese e la sua lavorazione. All’interno fanno bella mostra di se molti dei macchinari che vediamo nelle foto storiche, perfettamente restaurati.

Di seguito, una veduta dell’entrata del museo:

Stia ingresso

Stia ingresso

In un’altra ala, sono presenti spazi espositivi, destinati ad ospitare mostre di vario genere.

Alcuni locali, siti al piano terra, sono adibiti a negozi. Qui si vendono manufatti confezionati con il famoso panno casentinese.

Un’altra ala rimane, ad oggi, ancora in attesa di essere ristrutturata. Di seguito la situazione di questi locali ad agosto 2015:


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Società Anonima Serio

Nel 1932 sette operai della SAID (Societa’ Anonima Industrie Dattilografiche di via Friuli a Milano) decidono di investire 82.000 lire sul proprio futuro e acquistano a Crema (CR) un vecchio stabilimento dismesso, tra via del Mulino e viale Santa Maria della Croce, dove venivano prodotti chiodi per ferri di cavallo. Fondano, lo stesso anno, la Società Anonima Serio e iniziano a produrre macchine da scrivere.

Il primo modello di grande successo, nel 1934, è la Everest 42 che è anche la prima macchina da scrivere al mondo ad adottare una tastiera su quattro file (invece di tre come in uso sino ad allora), definendo così uno standard che sarà universalmente adottato da tutti i produttori del mondo.

Nel 1940 la Serio (ormai conosciuta come Serio Everest grazie alla popolarità della sua 42) conta 509 operai, 26 impiegati, 63 agenzie di vendita in Italia, e un indotto costituito da alcune centinaia di meccanici aggiustatori.

Nel 1950 la produzione si estende, oltre alle macchine da scrivere, anche alle addizionatrici elettriche a tre operazioni.

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La mensa della Serio nel 1950

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Nel 2011

Alla fine degli anni ’50 inizia una fase di stagnazione dovuta alla scarsa volontà della proprietà di investire nel rinnovamento degli impianti e si giunge, nel 1960, all’acquisizione da parte della Olivetti. Per alcuni anni nulla cambia e la Serio continua a produrre autonomamente la propria linea di prodotti. E’ solo nel 1969/70 che il marchio Serio sparisce per sempre e la produzione diviene interamente Olivetti, con la costruzione di un nuovo impianto poco distante, in via Bramante. Oltre alla costruzione dello stabilimento la Olivetti crea una era e propria piccola città nella città con alloggi e facilities destinate agli operai, nello stile del compianto Adriano Olivetti morto nel 1960.

Con la nascita del nuovo stabilimento, l’impianto di via Molino viene prima convertito in magazzino e poi lentamente abbandonato.

Nel 1970 l’Olivetti conta, a Crema, 3150 lavoratori. Il polo progettuale e produttivo rimane all’avanguardia per molti anni ancora arrivando, nel 1978, alla progettazione e produzione della ET 101, prima macchina da scrivere elettronica al mondo.

Oltre allo stabilimento di via Molino, oggetto di questa scheda e ad oggi – 2015 – ancora abbandonato , anche quello di via Bramante sarà chiuso definitivamente nel 1992.

Attualmente l’area ex Olivetti di via Bramante ospita una serie di piccole imprese e il Dipartimento di informatica dell’Università di Milano.


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La chiesa di San Vittorino

Siamo in una pianura lunga circa quattro chilometri e larga due, posta tra le pendici meridionali del Terminillo e quelle della catena del monte Velino, dove l’erosione carsica si mostra con una imponenza che secondo il grande geografo Riccardo Riccardi, non ha eguali in Italia.
E’ qui che il Velino cresce notevolmente ricevendo le acque delle sorgenti di Canetra ancor prima di accedere nella piana di S. Vittorino da dove, subito prima di uscirne, vi si immettono quelle del Peschiera.
Il sottosuolo di questa area è formato da una stratificazione di calcarei cretacei su cui si poggia un vasto basamento travertinoso, mentre la parte superficiale è costituita da terreni alluvionali formati da ghiaie, sabbie e argille.
Tutta la zona e interessata da numerosissime sorgenti mineralizzate, segni eloquenti di una vasta circolazione di acque sotterranee che esercitano una forte azione corrosiva del basamento travertinoso sottostante, indebolendone lo spessore e formando delle vaste cavernosità che sono alla base dei continui sprofondamenti della parte superficiale del territorio.
E’ in tal modo che sono nati i laghi di Paterno, del Pozzo di Mezzo e del Pozzo Burino, ma anche i numerosi altri piccoli bacini, ed è in questa stessa condizione strutturale che va addebitato lo stato in cui si trova la Chiesa di San Vittorino, progressivamente sprofondata su un’area sorgiva le cui acque sommergono tutta la navata creando una immagine di grande suggestione.

 dal sito del Comune di Cittaducale

La zona della piana di San Vittorino, martire cristiano del I secolo, è ricca di sorgenti; in mezzo a due di queste nel 1300-1440 fu eretta una chiesa sui resti di un tempio pagano dedicato alle Ninfe dell’acqua.
Tra il 1608 e il 1613 la chiesa fu ristrutturata ed ampliata e dedicata alla Madonna. Prese quindi il nome di Santa Maria di San Vittorino. Era composta da una monumentale facciata e tre navate; la principale con l’abside e l’altare e le altre due con dipinti.
Divenne la più importante del circondario di Cittaducale e fu una frequentata meta di pellegrinaggio.
Nel 1800 a seguito di movimenti tellurici le vene delle due sorgenti si spostarono e andarono a situarsi sotto la chiesa che fu presto allagata. L’acqua usciva dal portale principale e andava a sfociare nel vicino Velino.
La sorte della chiesa fu segnata e presto cominciò a sprofondare.

Nel 1983 la chiesa pur rovinata era ancora visitabile e Andrej Tarkovskij vi girò una scena del film Nostalghia (vedi recensione).

Da allora la chiesa ha continuato a sprofondare, la sorgente si e’ quasi prosciugata e la vegetazione ha invaso l’interno.

Della chiesa sono rimasti, conservati nella cattedrale di Cittaducale, una Annunciazione trecentesca in bassorilievo ed un fonte battesimale sempre trecentesco di squisita fattura.

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La chiesa vista dalla strada

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Un interno

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Idroscalo Ivo Monti

Nel Gargano, sulle sponde del lago di Varano, sono ancora presenti le rovine dell’Idroscalo Ivo Monti. La costruzione dell’idroscalo iniziò nel 1915, durante il primo conflitto mondiale e l’area venne scelta per la particolare posizione protetta e per la vicinanza all’area di guerra (con gli Austro-Ungarici attestati sulle isole Curzolane).

La decisione di costruire l’idroscalo fu presa dopo un sopralluogo del capo dello Stato Maggiore della marina italiana, Thaon di Revel.

La costruzione avvenne in fasi successive con il graduale ampliamento dell’idroscalo man mano che sorgeva l’esigenza di potenziarne la struttura. I lavori, soprattutto all’inizio, furono estremamente gravosi poichè si dovette superare una serie di ostacoli non indifferenti: dalla malaria alla quasi completa mancanza di infrastrutture di comunicazione.

Alcune scritte ancora presenti all'interno dellapalazzina del corpo di guardia

Alcune scritte ancora presenti all’interno della palazzina del corpo di guardia dove erano in servizio i Carabinieri

Il battesimo del volo avvenne, comunque, nel 1916.

Il nome dell’idroscalo viene da Ivo Monti, pilota morto il 6 giugno 1918, durante un volo di ricognizione.

Al termine del primo conflitto mondiale il personale di stanza diminuì sensibilmente per tornare a crescere con lo scoppio della seconda guerra mondiale. Durante il conflitto il ruolo strategico dell’idroscalo fu comunque molto marginale e al termine venne lentamente abbandonato.

Ad oggi (2015) sono ancora presenti molti degli edifici (tra cui, all’ingresso, il corpo di guardia che era affidato ai Carabinieri) usati ormai come ricovero per il bestiame. Di fronte all’idroscalo, su una collinetta, sorge la chiesa di Santa Barbara (edificata nel 1920) anch’essa abbandonata.


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Riferimenti in rete

S.L.O.I.

La S.L.O.I. (Società lavorazioni organiche inorganiche) è stata un’azienda chimica che produceva piombo tetraetile (TEL). Il TEL è stato l’additivo antidetonante utilizzato nella benzina per evitare fenomeni di autoaccensione e battito in testa, sino al passaggio alla cosiddetta benzina senza piombo.

Fondata nel 1935 a Ravenna, su idea del chimico Carlo Luigi Randazzo, apre nel 1939 lo stabilimento di Trento. La scelta della sede fu dettata da motivazioni logistiche: Trento si trovava vicino al confine italiano ed era efficacemente collegata alla Germania, alleata dell’Italia, tramite la ferrovia del Brennero. Era quindi possibile fornire facilmente il TEL, utilizzato principalmente per il carburante degli aerei, anche all’alleato nazista. Lo stabilimento di Trento era l’unico, in Europa, a produrre tale sostanza.

Al termine del conflitto mondiale la S.L.O.I. continuò la produzione del TEL per usi civili e l’incremento di automobili con il boom economico rese  sempre più necessaria questa produzione.

Le condizioni di lavoro alla S.L.O.I. erano a doppia faccia: da una parte il salario era ottimo ma dall’altra erano assolutamente carenti (come spesso nel dopoguerra) le misure di prevenzione e di tutela sanitaria dei lavoratori con la loro costante intossicazione da piombo (saturnismo). L’intossicazione da piombo agisce, tra l’altro, danneggiando il sistema nervoso centrale con sintomi pesanti sul comportamento (violenza, irritabilità ed altri disturbi psichici). Spesso questi sintomi non venivano associati all’avvelenamento e quindi gli operai venivano internati nel manicomio di Pergine e trattati come malati di mente.

Negli anni venne crescendo una sempre maggiore consapevolezza dei rischi per la salute che lo stabilimento comportava (nel 1975 il patron dell’azienda, Randazzo, venne condannato a cinque anni per omicidio colposo) fino ad arrivare al capitolo finale che provocò la chiusura definitiva.

Il 14 luglio 1978 un forte temporale si abbatté su Trento e l’acqua raggiunse alcuni fusti di sodio mal custoditi nello stabilimento, innescando un grande incendio. Se le fiamme avessero raggiunto i fusti di TEL la nube tossica avrebbe decimato la popolazione della città. L’esperienza del capo dei vigili del fuoco Ing. Nicola Salvati, che utilizzò per le operazioni di spegnimento la polvere di cemento prelevata dal vicino stabilimento Italcementi, scongiurò la sciagura, ma l’enorme rischio corso portò le autorità ad imporre la definitiva chiusura della fabbrica.

Abbandonata a se stessa divenne rifugio di tossicodipendenti, prima, e di senzatetto poi sino a quando iniziarono nel 2011 i lavori di bonifica con l’abbattimento di quasi tutti gli edifici. Ad oggi (2015) rimane in piedi lo scheletro dell’edificio forni e la torre dell’acqua. Il vero problema della bonifica, però, rimane irrisolto: nel suolo si stima siano presenti oltre 180 tonnellate di piombo, separate da un sottile strato di argilla impermeabile dalla sottostante falda acquifera. Non esistono al mondo esperienze di bonifica piombo di questa portata.


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Riferimenti in rete

Cartiera Amicucci Graziosi

Gli antichi processi di produzione della carta hanno sempre richiesto che un elemento fondamentale fosse disponibile in grande quantità: l’acqua.

Sin dal XV secolo, lungo il fiume Aniene nel Lazio, è documentata la presenza di opifici per la produzione della carta. Tra i vari centri urbani che ospitavano le cartiere Continua a leggere

La Miniera di Zolfo di Pomezia (COMIRO)

La S.P.A. COMIRO – Compagnia Mineraria di Roma – cominciò la sua attività il 18 ottobre 1971.
Già nel 1979 i lavoratori furono messi in cassa integrazione.
A metà degli anni 80  fu chiusa definitivamente.

Foto dal satellite

La miniera di zolfo era costituita dalla zona dello scavo (A), dall’impianto di invio del materiale tramite un lunghissimo nastro trasportatore (B) alla fabbrica sulla collina (C) che lavorava il materiale e produceva lo zolfo che si può vedere nella foto iniziale scattata quando era ancora in funzione.

Qui di seguito alcune foto che descrivono come era fatta la fabbrica.

La zona allagata dello scavo

La zona allagata dello scavo

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L’impianto di invio del materiale

Nastro trasportatore alla partenza

Nastro trasportatore alla partenza

Nastro trasportatore all'arrivo

Nastro trasportatore all’arrivo

La fabbrica vista dalla zona di scavo

La fabbrica vista dalla zona di scavo

Interno della fabbrica

Interno della fabbrica

Non si sa se la fabbrica fu chiusa per riduzione di materiale estratto o per la fuoriuscita dell’acqua dalla falda che creò un esteso laghetto dalla colorazione rossa.
Vicino al questo lago, creatosi a causa della fase estrattiva, ne esistono altri due, uno di colore blu ed uno bianco.
Tutta la zona, nota come Solforata e facente parte della Riserva Naturale di Decima Malafede, era conosciuta fin dall’anitichità come luogo di culto del dio Fauno.

“L’ubicazione di Albunea viene riconosciuta nella località Solforata, all’incrocio delle vie che collegavano i centri di Ardea, Lavinium ed Alba Longa. Albunea fu un luogo sacro, un santuario naturale cui faceva riferimento la religiosità delle antiche popolazioni latine. Il nome mitico deriva dal colore bianco (alba) delle effervescenti sorgenti sulfuree che alimentavano il lago che ancora oggi caratterizza la valle della Solforata. Un bosco, parte dell’antica Selva Laurentina, oggi scomparso, ed una serie di grotte naturali si univano alle esalazioni sulfuree realizzando un paesaggio straordinario, naturalmente sacrale. I Latini elessero Albunea come sede delle tre Fate: Parca, Nona e Morta (divinità fatali e protettrici dei nascituri) e dell’’oracolo di Fauno, lo spirito divino del bosco. L’oracolo poteva essere consultato attraverso il rito dell’incubazione. La particolare suggestione di questo luogo consentiva esperienze soprannaturali di oniromazia: durante il sonno si manifestava la voce di Fauno che rivelava agli umani il loro ineluttabile destino. Il Fato non veniva rivelato da sacerdoti o sibille, ma si disvelava direttamente, quale risultato di una esperienza personale; il sonno e il sogno si sostanziavano come strumenti di comunicazione tra il mondo dei vivi, il mondo dei morti ed il divino.”

Articolo di Alessandra Reggi tratto da “Atlante dei Beni Culturali delle Aree Naturali Protette di RomaNatura”.

Dal libro “La riserva naturale Decima-Malafede : la selvaggia bellezza di un angolo dell’Agro romano: conoscere per proteggere” si scopre che:

“La leggenda vuole che anche Re Latino, discendente del dio Fauno, si recasse ad Albunea, cioè alla Zolforata, per ricevere visioni dal proprio padre circa il futuro di sua figlia Lavinia. La divinità, apparsa in visione al re avvolto nelle pelli sanguinanti delle agnelle sacrificali, annuncia a Latino la venuta di Enea e prescrive quindi al re di annullare le annunciate nozze con Turno, re dei Rutuli, tribù stanziata nell’odierna Ardea.
La presenza della grotta con i resti di un altare ed il rinvenimento a poca distanza da qui, nella zona di Tor Tignosa, di cippi votivi dedicati ad una divinità minore collegata a Fauno accertano al di là di ogni dubbio la presenza del santuario.”

E che anche Virgilio ne parla nel VII libro dell’Eneide:

“…Mosso à portenti il re cerca e consulta di Fauno genitor profeta i detti e i selvosi recinti sotto l’alta Albunea, che né boschi più risuona con la sua sacra fonte e intorno spira tutta ombrosa mefitici vapori.
Da qui Vitale genti e tutta Enotria ne le dubbiezze lor chiedon responsi; qui poi che addusse offerte il sacerdote e su le pelli de l’uccise agnelle per la notte silente si distese desiando dormir, mirabilmente a torme vede vagolar fantasmi e varie voci ascolta e del colloquio degli Dei gode e volge la parola a l’Acheronte del profondo Averno.
E quivi allor esso Latino padre cento per un responso offria di rito lanigere bidenti e si giacea sù velli de le lor terga. Ad un tratto dal cuor del bosco voce gli rispose “Non voler la figliuola ad uom latino sposare, o mia progenie, e non fidarti à talami di qui; da fuor verranno generi, che per nozze il nostro nome portino in cielo, e di tal ceppo scesi i nepoti, per quanto stende il corso tra i due Oceani il sol, sotto i lor piedi….”

Tornando alla miniera di Zolfo, sempre dal medesimo libro apprendiamo che “la località è stata nel recente passato sconvolta dall’attività di una cava di zolfo che ha operato negli ultimi decenni, modificando ed alterando la morfo­logia dei luoghi”.


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Riferimenti in rete

Percorsi geologici nel Lazio – Il Vulcano Laziale


Bibliografia

Atlante dei Beni Culturali delle Aree Naturali Protette di RomaNatura”
Gangemi 2010

La riserva naturale Decima-Malafede : la selvaggia bellezza di un angolo dell’ Agro romano: conoscere per proteggere
Marco Antonini
WWW Delegazione Lazio 1998

Leo farmaceutica

La penicillina venne ufficialmente scoperta in Inghilterra nel 1928 ad opera di Alexander Fleming, che per tale scoperta venne insignito del premio Nobel nel 1945, unitamente con Ernst Boris Chain e Howard Walter Florey.

Il primo utilizzo su larga scala della nuova scoperta avvenne durante la seconda guerra mondiale, ad opera principalmente degli americani che, a partire dal 1944, iniziarono a renderla disponibile anche per l’Italia. Al termine del conflitto l’Italia Continua a leggere

Orfanotrofio della Marcigliana

Alle porte di Roma, poco fuori il grande raccordo anulare, ci si imbatte in un vecchio e suggestivo edificio in abbandono. E’ un luogo piuttosto popolare per chiunque si interessi di abbandoni e viene spesso utilizzato come set fotografico o arena per giocatori di soft-air.

Cercando notizie in rete viene quasi sempre accreditato come “ex-manicomio”, ma non lo è mai stato, con buona pace dei cacciatori di fantasmi che entrano tra queste rovine con improbabili amperometri e antenne varie cercando di cogliere le “presenze” inquiete di spiriti folli.

Nei primi anni del ‘900 i Padri Giuseppini gestivano, in questa zona, la Colonia Agricola Romana della Bufalotta, su terreni da poco bonificati di proprietà del Pio Istituto della Santissima Annunziata di Roma. Si trattava di una grande scuola professionale agricola, destinata agli orfani di guerra e ai bambini abbandonati della provincia. Qui potevano imparare una professione e poi esercitarla nell’Azienda Famiglia, una sorta di cooperativa ante litteram.

All’interno della tenuta, nel 1933, venne costruito un orfanotrofio femminile, il cui fondatore è il Senatore Carlo Scotti (1863-1940) e sembra proprio che sia questo il nostro edificio abbandonato. Tutt’oggi la breve strada che porta all’edificio è intitolata alla santa Bartolomea Capitano che si era distinta per le opere assistenziali alle giovani.

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da Google maps

Nell’archivio dell’Istituto Luce è presente un cinegiornale del 1934 dove si vede chiaramente l’edificio durante una visita del Capo del Governo.

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Cinegiornale 1934

Su un quotidiano locale di Roma (La voce del municipio) è presente un’intervista alla Sig.ra Bruna che ricorda la sua infanzia trascorsa tra le mura di questo orfanotrofio

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Articolo su La voce del municipio

Negli ultimi anni di vita cambiò destinazione passando da orfanotrofio a istituto geriatrico.

L’edifico venne utilizzato anche come location di alcuni film.

Ne “I nuovi mostri” (di Risi, Monicelli e Scola, 1977), nell’episodio “Come una regina”, Alberto Sordi abbandona l’anziana madre in un ospizio. L’ospizio è il nostro edificio

I nuovi mostri

Scena dal film “I nuovi mostri”

Ancora qui venne girata una scena del film “La banda del gobbo” (di Umberto Lenzi, 1977). In questo caso una finta insegna lo classifica come “Ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà” (che è in realtà il vero ex-manicomio di Roma ma che si trova in tutt’altra zona) dove viene internato il protagonista Tomas Milian.

La banda del gobbo

Scena del film “La banda del gobbo”


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Riferimenti in rete

La Meccanica Romana

Lo stabilimento nasce nel 1927 come S.T.I.M.A. (Società Trattori Italiani e Macchine Agricole Italia),

tratta dal sito

Tratta dal sito “il secolo di ostia”

un nome scelto dal duce al momento dell’inaugurazione, per volontà dell’ingegnere Pio Perrone, un industriale genovese (Gruppo Ansaldo, con diverse società controllate tra le quali la Dinamite Nobel e già proprietario dei quotidiani “Secolo XIX” e “Messaggero”).
L’industriale intuì le potenzialità di un’industria specializzata in macchine agricole in un periodo in cui la dittatura fascista aveva in programma grandi opere di bonifica e conseguentemente acquistò dagli Aldobrandini il terreno, tra il Tevere e la ferrovia Roma-Lido di recente costruzione, confidando nello sviluppo del trasporto fluviale sul Tevere e sul potenziamento della linea ferroviaria. Sperava così in un grande sviluppo industriale della zona, ma nonostante le sue conoscenze nel partito fascista, non si realizzò nessuna delle due ipotesi e lo stabilimento rimase l’unico isolato caso di industrializzazione ostiense.

La S.t.i.m.a. anni 30/40

La S.t.i.m.a. anni 30/40

L’edificio della fabbrica fu progettato dall’architetto Pietro Barbieri e si presenta con la facciata principale rivolta verso la via del Mare (4 ingressi) e due corpi trasversali collegati da uno centrale.

Il corpo di sinistra a tre navate è il più grande ed era il reparto delle lavorazioni pesanti

 

Ingrandisci

Il corpo di destra per le lavorazioni leggere è a una navata con copertura a shed

Lo stile architettonico dell’edificio è classicheggiante e si riallaccia volutamente allo stile della chiesa “Regina Pacis” di Ostia, costruita l’anno precedente (1926).

Le ambizioni di Perrone vengono infrante, oltre che dal mancato collegamento fluviale con Roma, dal costo elevato della corrente elettrica e del trasporto per ferrovia.

Nel 1938 l’ing. propone a Mussolini la riconversione della fabbrica per la produzione dell’acciaio, nel progetto di potenziamento della produzione bellica.

Nel 1941 la STIMA diventa Società Acciaierie Romane.
All’interno della fabbrica viene installato un forno per la produzioni di acciaio utilizzando il minerale estratto dalle sabbie di Ostia ricche di ferro (tramite la “cernitrice magnetica” Inventata dall’ingegner Giovanni Liguori che separava automaticamente la sabbia dalla ferrite).

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Dall’archivio storico Breda

II 23 marzo il Duce, accompagnato dal Ministro delle Corporazioni, si è recato al Lido di Roma per assistere ad alcuni esperimenti di estrazione del minerale di ferro dallo sabbie ferrìfere del Litorale. Erano presenti il comm. Liguori, ideatore della nuova macchina, l’avv. Mattòli e l’ing. Frua della Società Breda. Come tutti i giornali hanno riferito, il Duce ha assistito ad una serie di prove che hanno dato ottimi risultati rilevando la perfetta efficienza del procedimento integralmente autarchico. Il Capo del Governo, che ha esperimentata personalmente una delle macchine, ha anche voluto rendersi conto sul luogo degli aspetti geologici del problema e si è vivamente interessato alle ricerche eseguite per accertare la consistenza dell’immenso patrimonio ferrifero racchiuso nelle sabbie dei nostri, mari. Possiamo aggiungere che sin dai prossimi giorni un primo gruppo di macchine Liguori inizierà sistematicamente sul lido di Roma l’estrazione del minerale di ferro: e che la Società Breda realizzerà entro brevi mesi il suo programma di costruzione della macchina in larghissima serie

Tratto dal testo della foto precedente

L’industria prospera fino a raggiungere le 6000 unità lavorative, ma la caduta del regime segna la definitiva uscita di scena di Perrone.

Nel 1943 la fabbrica fu occupata dalle truppe tedesche e poi minata per essere probabilmente distrutta al momento della ritirata.
Nel gennaio del 1952 venne costituita la Breda Meccanica Romana di Ostia (esisteva già dai tempi della guerra la Breda Meccanica Romana di Torre Gaia che produceva armi).
L’attività principale diventa quella di carpenteria pesante e di rifacimento delle vetture della linea ferroviaria Roma-Ostia. Le foto seguenti sono di Pino Raselli  tratte dal libro “L’Ex-Meccanica Romana presso Ostia Antica“.

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Lavorazione nel padiglione di sinistra

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Lavorazione nel padiglione di sinistra

Foto n.5 di Pino Raselli Tratta dal libro "L'Ex-Meccanica Romana presso Ostia Antica".

Lavorazione nel padiglione di destra

L’interruzione delle commesse segna la definitiva crisi dell’industria e la chiusura nel 1979.

Nel 1981 la Sovrintendenza Archeologica di Ostia Antica mette sotto tutela l’edificio in quanto rientrante nel progetto di un parco del litorale.
Successivamente il Ministero dei beni Culturali, dopo il programma “Mirabilia”, redige un progetto in cui si prevede l’esproprio del fabbricato.
Durante questo periodo vengono svolte delle tesi di Laurea per il riutilizzo dell’edificio come centro museografico, scuola di restauro, centro musicale, sede del museo degli scavi di Ostia Antica.

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Pagina di una delle tesi di laurea per il riutilizzo dell’edificio. Tratta dal libro “L’Ex-Meccanica Romana presso Ostia Antica”.

Nel 1988 il progetto viene abbandonato e l’edificio, nel frattempo sotto vincolo totale, viene ristrutturato rispettandone la struttura esterna e diventa “Cineland” (multiplex cinematografico)
Nell’ala sinistra vengono realizzate 14 sale cinematografiche, la struttura centrale ospita fast food, l’edificio mensa e servizi degli operai diventa la quinta di un anfiteatro e nell’ala destra vengono ospitati un bowling, una sala giochi e qualche negozio.

Veduta aerea

Veduta aerea della attuale struttura

Durante il periodo di abbandono vengono girate nell’edificio le scene di alcuni film tra i quali, “La luna” di Federico Fellini.

e “I mitici, colpo gobbo a Milano” di Carlo Vanzina

Durante la ristrutturazione dell’edifico venne realizzato un VHS che conteneva anche interviste e cenni storici.
Il titolo del filmato è  “La Fabbrica”  e gli autori sono  P.Isaja e M.P. Melandri.

Qui sotto una clip introduttiva


Galleria di  foto scattate nel periodo in cui l’edificio fu abbandonato.


Bibilografia

Roma memorie della città industriale” a cura di E.T. Landini (Palombi Editori)
L’Ex-Meccanica Romana presso Ostia Antica: nella logica dell’ecosistema urbano per il riuso del costruito” a cura di Hilda Selem (Officina Edizioni)
La ricostruzione della S.T.I.M.A in multiplex cinematografica” di Paolina Conti (tesi di laurea)

Il Messaggero: articoli alle date 24/1/90, 15/12/90, 16/12/90, 8/5/91, 7/10/94, 8/10/94, 1/2/95.
Il Tempo: articoli alle date 15/10/94 e 29/10/94.
Corriere della Sera: articolo in data 1/2/95.
La Repubblica: articolo in data 1/2/95.
L’Unità: articolo in data 1/2/95.
Giornale di Ostia articoli alle date 7/10/94 e 3/2/95.
Metropolit: articoli alle date 15/10/94 e 4/2/95.